Il è una macro-area letteraria che, dagli anni Sessanta in poi, ha riunito pratiche e poetiche diversissime – dal gioco metaletterario alla frammentazione, dalla parodia alla paranoia sistemica – sotto un’unica domanda: che rapporto c’è tra finzione e realtà quando la realtà è già una finzione?
László Krasznahorkai, un simbolo del postmoderno
L’assegnazione del Nobel per la Letteratura 2025 a László Krasznahorkai ha riportato al centro proprio questo nodo: nei suoi romanzi la fine del mondo non è un evento, è un’atmosfera; l’“apocalisse” è lo stato in cui viviamo, e la letteratura è il solo strumento capace di farci attraversare il terrore senza cedere al cinismo.
La motivazione ufficiale del Premio parla di un’opera “avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte”: non un’etichetta, dunque, ma un compito.
Cos’è il postmoderno
Più che uno stile, il postmoderno è una postura: smonta le grandi narrazioni dell’età moderna, diffida delle verità totali, mostra le cuciture del racconto. In letteratura questo si traduce in metafiction, intertestualità, narratori inaffidabili, pastiche di registri alti e bassi, e un gusto per la “storia delle versioni” più che per la “versione della storia”.
È un movimento nato (e nominato) nel secondo Novecento, a cavallo fra teoria e pratica, ed è diventato rapidamente una lingua globale: dagli Stati Uniti all’Europa, fino al mondo ispano-americano e asiatico.
Due ceppi principali:
- Postmoderno americano: corrente ludica e paranoica, dove i romanzi sembrano sistemi complessi (Pynchon, DeLillo, Foster Wallace);
- Postmoderno europeo-mitteleuropeo: corrente elegiaca e corrosiva, che unisce il monologo bernhardiano al grottesco apocalittico (Bernhard, Sebald, Krasznahorkai).
Entrambi mettono in crisi l’idea di realtà come dato neutro: nel primo, perché il mondo è una rete di segnali; nel secondo, perché è una catastrofe lenta.
Perché Krasznahorkai è un buon test per capire il postmoderno
Ungherese, classe 1954, Krasznahorkai è diventato, fin dagli esordi con “Sátántangó” (1985), la coscienza tragica di un’Europa collassata nei margini: villaggi sfiniti, città in disarmo, figure che parlano in frasi lunghissime, come un unico respiro trattenuto. Non è solo tema: è forma. L’epica si fa lava lenta; i periodi, spesso senza capoversi, obbligano il lettore a stare dentro l’onda narrativa, così come era solito fare un altro Premio Nobel: José Saramago.
Ma se Saramago usa la frase lunga come un racconto orale che tiene insieme, Krasznahorkai la usa per costringerci a sentire la pressione del mondo.
La Svezia ha definito Krasznahorkai “grande scrittore epico nella tradizione centroeuropea” — il secondo ceppo, con Kafka e Bernhard —, mentre la stampa internazionale – da Reuters all’AP, al Guardian – ha insistito sull’“apocalisse” come tono, più che come trama: un mondo spogliato di illusioni, ma tenuto in piedi dalla tenacia dell’arte.
Romanzi per leggere la sua idea di mondo e di postmoderno
Per capire davvero l’idea di mondo (e di letteratura) in László Krasznahorkai conviene passare attraverso quattro romanzi. “Sátántangó” è il primo tornante: un villaggio ex-colcos sprofondato nel fango e nella pioggia, abitato da figure allo stremo che attendono un ritorno messianico destinato, forse, a rivelarsi una truffa.
La struttura stessa del libro è un dispositivo di senso: capitoli che avanzano e retrocedono come passi di tango, specchiature interne, tempo che si arrotola su sé stesso.
Qui il “postmoderno” non è un gioco di specchi ma un’etica dello sguardo: non c’è una versione giusta degli eventi, ma la mappa delle menzogne attraverso cui i personaggi cercano di salvarsi. L’ipnosi del testo l’ha fissata poi il film-fiume di Béla Tarr — della durata di oltre sette ore —: i piani sequenza non sono virtuosismo, sono una forma di resistenza alla semplificazione.
Con “La melanconia della resistenza” (1989) il mondo si allarga a una città senza nome dove arriva un circo che espone una balena imbalsamata. L’oggetto diventa detonatore di un’isteria collettiva che scivola nella rivolta.
La prosa, fatta di frasi lunghe e monologanti, si stende come uno spartito: le voci non descrivono il disordine, sono il disordine che cresce, fino a trasformare la città in un teatro in cui l’ordine crolla come una scenografia mal fissata.
Anche qui Tarr trova la sua controparte cinematografica in “Werckmeister Harmonies”: un’apocalisse in tonalità minore, dove la massa non ha un progetto, ma un ritmo, e il potere appare come messa in scena permanente.
“Guerra e guerra” (1999) sposta il fuoco sul rapporto tra testo e salvezza. Un archivista di provincia scopre un manoscritto che racconta quattro uomini in fuga da ogni tempo; decide di trascriverlo e “salvarlo” pubblicandolo online, convinto che la rete sia l’arca dove l’opera potrà vivere per sempre.
Il viaggio a New York, la vertigine, il pensiero del suicidio: tutto converge in una domanda ossessiva — che cosa rende eterno un racconto? Qui Krasznahorkai mette in scena l’archivio come labirinto: manoscritti, siti, testi dentro testi. La salvezza, se c’è, non coincide con la rivelazione di una Verità, ma con il montaggio che tiene insieme frammenti, rovine, scarti.
Infine “Baron Wenckheim’s Homecoming” (2016): un aristocratico fallito rientra nella città natale e trova un paese che proietta su di lui aspettative, rancori, maldicenze.
Attorno si muovono un sindaco vanitoso, un professore misantropo, un coro di comparse che è la vera protagonista: la città come organismo stonato.
È un romanzo di maturità, una commedia nera che precipita lentamente in tragedia; qui la macchina stilistica di Krasznahorkai tocca l’equilibrio massimo tra ferocia e tenerezza, tra farsa sociale e metafisica della sconfitta.
Se spostiamo lo sguardo e proviamo a mappare il postmoderno attraverso confronti con altri autori, il profilo si definisce meglio. Con Thomas Pynchon — “L’arcobaleno della gravità” — c’è l’idea che il mondo sia un sistema paranoico di segnali e complotti, imprendibile da un solo punto di vista; ma dove Pynchon è carnevale entropico, saturo di trame laterali e invenzioni centrifughe, Krasznahorkai pratica un’epica della stanchezza, una gravità che consuma lentamente.
Don DeLillo — “Rumore bianco” — offre il equivalente americano dell’aerosol contemporaneo — media, università, consumo, gestione dell’emergenza — lucido e radiofonico: il suo disastro è protocollato, il terrore passa dai briefing; in Krasznahorkai lo stesso clima si addensa in fanghiglia periferica, senza la superficie levigata del broadcast.
Poi c’è il nostro Italo Calvino — “Se una notte d’inverno un viaggiatore” — che condivide l’architettura e il gusto per i dispositivi narrativi, ma diverge radicalmente nel tono. Calvino smonta con gioia ludica, fa del lettore un personaggio e gli strizza l’occhio; Krasznahorkai smonta e poi ti lascia davanti al vuoto che rimane.
W. G. Sebald — “Austerlitz” — è il parente più vicino per sintassi lunga, memoria, gravità etica e uso di materiali “documentari”: tuttavia Sebald cerca le tracce nell’archivio — foto, luoghi, testimonianze — mentre Krasznahorkai mette in scena l’assenza come condizione permanente, un mondo in cui le prove si sfaldano.
Con Thomas Bernhard — “Estinzione” — condivide il monologo a spirale e la negatività come stile; ma se Bernhard assedia l’io in una satira corrosiva, Krasznahorkai “satura” il mondo: la sua invettiva è meno comica, più cosmica.
E Roberto Bolaño — “2666”? C’è la stessa ambizione da romanzo-mondo e una coscienza acuminata del male; però Bolaño conserva una frenesia investigativa, un impulso a inseguire piste e indizi, mentre Krasznahorkai accetta la rassegnazione visionaria: l’indagine non si chiude, il cerchio non si stringe.
Questi accostamenti non servono a incasellare: servono a capire che il postmoderno è una topografia, non un marchio. In quella mappa, Krasznahorkai occupa il quadrante del tardo stile europeo: lentezza che obbliga a vedere, catastrofe diffusa anziché evento, etica dell’attenzione contro ogni slogan.
Come funziona?
La voce di Krasznahorkai si riconosce subito dalla sintassi che diventa etica: frasi-liane, lunghe e avvolgenti, veri “tubi d’aria” che ti costringono a restare dentro il respiro del testo.
Non è vezzo né manierismo: è il rifiuto della battuta che semplifica, il tentativo di restituire continuità a un mondo frantumato. Dentro questo respiro si muove un’apocalisse senza evento: nei suoi libri il disastro non esplode, è già nell’aria che si respira; la politica appare come teatro, l’economia come sciacallaggio, la comunità come coro che si disfa.
Il gesto postmoderno, qui, non consiste nel mostrare l’esplosione, ma la stanchezza che la precede e la segue — quella penombra in cui, come ricorda anche la motivazione del Nobel, l’arte riesce ancora a riaffermare se stessa.
Di conseguenza, l’opera torna ossessivamente sulla prova: dai manoscritti di “Guerra e guerra” alle voci che rimbalzano in Baron Wenckheim, ciò che rende “vero” un racconto non è una rivelazione finale, ma il montaggio che tiene insieme frammenti e contraddizioni.
La letteratura non promette più oggettività: promette trasparenza dei dispositivi. Questa idea di opera come rete è anche materiale: l’inglese di Krasznahorkai l’hanno forgiato — nel senso forte — George Szirtes e Ottilie Mulzet, scegliendo ritmo, punteggiatura, respiro; non un dettaglio, ma una co-autorialità riconosciuta anche dal Man Booker International 2015, che premiava autore e traduttori insieme. E poi c’è il cinema come estensione: con Béla Tarr i libri diventano tempo puro — piani-sequenza interminabili, corpi che avanzano sotto la pioggia, musica come gravità. Non semplici adattamenti, ma trasmutazioni della stessa poetica in un altro elemento: da Damnation a Werckmeister Harmonies, fino a The Turin Horse, la filmografia condivisa è un capitolo essenziale del “sistema Krasznahorkai”.
Come si legge oggi il postmoderno
Il postmoderno non è “passato di moda”, malgrado tutti i sottogeneri che ne derivano, perché le sue domande sono ancora le nostre: chi fabbrica la verità e con quali documenti? Quali voci vengono escluse?
Chiamarlo “postmoderno” serve solo se ci obbliga a questa onestà: non esiste un’unica storia, esistono i modi di costruirla. Krasznahorkai lo fa con una lingua che non semplifica — ed è per questo che alcuni lo ritengono un autore complesso —, con frasi che ci chiedono di respirare più a lungo, con personaggi che non “vincono” ma resistono. È la lezione meno glamour del nostro tempo e forse la più urgente: l’arte, quando non consola, sostiene. Lo ricordano i premi, i comunicati, le letture. Ma soprattutto lo ricorda quella sensazione alla fine di ogni suo romanzo: avere visto ciò che non volevamo vedere – e, nonostante tutto, voler continuare a guardare.