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L’omuncolo e i pappagalli – Racconto di Matteo Girardi

L’omuncolo e i pappagalli

C’era una volta un piccolo uomo, sodo come il prosciutto crudo, con la testa quadrata, le spalle quadrate, le ginocchia quadrate e pure con le scarpe piuttosto quadrate, che sembrava quasi un soldatino della Lego che ha preso vita. Ogni mattina da decenni, si alzava, riempiva la base della caffettiera d’acqua, metteva il caffè nell’imbutino, spesso spargendone qualche grammo a destra e sinistra, grattava con decisione un fiammifero in legno contro la parete sopra il gas, accendeva la fiamma e dava così il via alla preparazione del caffè. Con gli occhi lucidi scrutava fuori dalla finestra del suo cucinino, osservando in religioso silenzio sempre la stessa immagine, cioè il viottolo che da casa sua portava, tramite un portico, nelle vie del paese. Ogni mattina ne coglieva particolari diversi, soprattutto quando cambiava il tempo: più muschio o meno muschio lungo i muri, qualche sasso spostato, un rivolo d’acqua che il giorno prima non c’era, o semplicemente una lucertola che sfrecciava veloce come un pedone che attraversa avventatamente la strada. Quando il caffè era pronto, lo versava con una mano non sempre ferma nella tazzina.Aggiungeva un cucchiaino e mezzo di zucchero, poi prendeva la tazzina, la portava dinnanzi a sè a mezz’aria, e dopo aver fatto roteare il caffè per due o tre secondi, sorseggiava il tutto deglutendo attentamente.

Dopo essersi messo a posto il ciuffo di trentasette capelli davanti allo specchio, si dava qualche colpetto sul vestito per mettere a posto qualche piegatura dovuta ai vestiti riposti malamente la sera prima. E poi s’incamminava. La mattina era sua consuetudine visitare i “quattro punti cardinali”, come li chiamava lui, del paese, ossia i quattro bar posti nei vari angoli del paese. Da lì nascevano quelle che lui chiamava le “informazioni di base”, reperite da lavoratori e pensionati mattinieri o baristi informati. Dopo la prima raccolta di informazioni, egli sostava come una guardia del corpo dinnanzi al supermercato del paese. Aveva comperato apposta, con i pochi spiccioli della pensione, degli apparecchi acustici di ultima generazione, capaci di captare suoni che neanche il suo gatto Trottola si sarebbe mai immaginato di poter captare. Comperava le bevande e gli alimenti un po’ alla volta durante il giorno, dimenticando sempre qualcosa, in modo da poter reperire più informazioni possibili. Da lì nasceva quella che lui chiamava la “raccolta informazioni di mezza mattina”. A mezzogiorno, come al suo solito, si recava alla mensa dei lavoratori, dove con pochi soldi poteva avere un buon pasto. Attaccava bottone con tutti, ogni tanto venendo respinto dai meno socievoli, ma in tanti casi, dato il suo soliloquio, finiva a bersi un caffè nel bar vicino, avendo così come la chiamava lui la “raccolta informazioni di mezzogiorno”. Il pomeriggio invece avveniva l’esatto contrario. Forte delle informazioni raccolte la mattina, il pomeriggio, con garbo, si presentava nelle varie case, dove lo accoglievano, per barattare le informazioni ricevute con un buon tè, pasticcini, caffè, caramelle, biscotti, succhi di frutta e qualsiasi cosa offriva la casa di turno. La sera non occorreva neanche cenasse, dato che a forza di mangiucchiare a destra e sinistra, era bello satollo come quando si esce da un pranzo nuziale. Alla sera dava una carezza al suo gatto Trottola, porgendogli qualche rimasuglio di biscotto che gli rimaneva in tasca, e poi andava a dormire presto. E la mattina dopo ricominciava.
Una mattina, finito di bere il caffè e dopo aversi preparato, partì con la solita lena, ma appena fuori dall’uscio di casa… opss! Le sue scarpe quadrate si incastrarono in una fessura del pavimento, facendogli perdere l’equilibrio e facendolo finire a gambe all’aria.
Subito accorse Trottola, che si mise ad annusare il suo padrone ogni dove.
“Maledetta fessura! Sono anni che chiedo a Gino il Muratore se mi presta un po’ di malta! Ohi! Ohi!”
La vicina di casa, tale Ginevra Rapanella, lo soccorse, ma per il piccolo uomo purtroppo si trattava di una rottura al femore.

Era disperato, chi portava le notizie in giro al paese? Se mancava il sindaco, in qualche modo si poteva rimediare, ma a mancare lui, sarebbe stata la paralisi totale. Soffriva di più di questo pensiero, che della sua gamba rotta. La notte non dormiva, a pensare alla gente ansimante che aspettava le sue notizie. Soffriva molto, ma un giorno, all’improvviso, un volatile atterrò sul davanzale della finestra del suo cucinino. Era un uccello verde smeraldo, celeste, bianco, giallo e nero, con le ali ben attaccate al corpo e con un becco ad uncino. Il piccolo uomo non aveva mai visto un uccello simile. “Ma da dove sbuca fuori questo uccello?”. Faceva fatica a mettere a fuoco, causa i pochi decimi della sua vista, ma data la vicinanza del suo letto alla finestra, si avvicinò. Arrivato lì, guardò dritto negli occhi l’uccello, il quale fece due zampettate indietro un po’ intimorito.
“Guarda che sono un vecchietto dolorante, io! Vai a cercare il cibo da qualche altra parte!”
“Dolorante! Dolorante! Cibo! Cibo!”
“Ma che razza di uccello è questo! Inutile, più si va avanti e meno educazione c’è!”
“Avanti! Educazione! Avanti! Educazione!”
“Ma guarda che… Se vuoi veramente cibo, vai a raccogliere informazioni al posto mio! San Giot! Ho mezzo paese affamato di notizie, e tu stai qui a prendermi in giro! Vattene, uccellaccio!”
Ci fu un attimo di silenzio, poi il piccolo uomo prese di nuovo parola:
“Ascolta, vedo che sei affamato… e hai le ali buone… e riesci pure a ripetere quello che dicono gli altri… che ne dici se facciamo uno scambio? Tu mi vai a prendere le informazioni in giro, ti dico io dove andare, gli orari, dove metterti, senza dare nell’occhio, e poi vieni a ripetermele e a dirmele… in cambio io ho qui qualche cesta di pane secco che potrebbe fare al caso tuo…”
“Pane secco! Pane secco!” rispose l’uccello.
“Bene, vedo che con te si fanno accordi in fretta!”

L’uccello mattiniero si appostava dove il piccolo uomo gli aveva detto, raccogliendo le “informazioni di base”, le “informazioni di mezza mattina” e le “informazioni di mezzogiorno”. Poi il pomeriggio andava alle finestre delle varie case, gli aprivano la finestra e riferiva quanto succedeva alla gente. Le persone dopo aver ascoltato le notizie, davano un piccolo sacchetto con qualche dolce o leccornia al pappagallo, il quale lo portava la sera al piccolo uomo. La collaborazione andò avanti alcuni giorni, quando ad un certo punto il pappagallo ammise di essere un po’ stanco di svolazzare tutto il giorno. Così propose al piccolo uomo che, se avesse voluto , si avrebbe fatto aiutare dai tanti suoi amici. Il piccolo uomo accettò, e il giorno dopo uno stormo di uccelli dai mille colori arrivò nel cortile dell’uomo. Si divisero in chi raccoglieva le informazioni la mattina fino a mezzogiorno, e in chi invece andava a distribuirle il pomeriggio, coprendo praticamente tutto il paese, affacciandosi a tutte le finestre, anche nelle case più lontane. Era un servizio efficientissimo, tanto che il piccolo uomo continuava a chiedere in prestito pane secco alla sua vicina di casa, la Ginevra Rapanella.
Una sera il piccolo uomo preparò una cena sontuosa per tutti i suoi collaboratori, a base di lombrichi d’orto di prima qualità e mangime di marca.
Il pappagallo, primo collaboratore del piccolo uomo, gli chiese: “Ma qual’è il tuo nome?”
Il piccolo uomo, finito di posare l’ultima cassetta di mangime, rispose: “Il mio nome è “Essere” e il mio cognome è “Umano”. Il nome della vostra tribù, invece, qual’è?”
L’uccello, sazio del cibo portato dall’uomo, rispose: “La nostra tribù si chiama Televisione. Molto piacere. Penso che potremo avere una bella collaborazione, da qui in avanti!”

Matteo Girardi

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