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L’enigma di Pallareda – di Stefano Testa

L’improvviso acquazzone primaverile mi sorprese mentre stavo scendendo lungo la mulattiera, verso il Santuario di Pallareda. Mi affrettai tra gli ontani, attraversando quasi di corsa l’antico ponte romanico e trovai riparo nella cappelletta, subito prima dell’inizio della ripida salita che porta verso le Croci. Quello era stato un luogo magico della mia adolescenza, ma da moltissimi anni ormai, per il colpevole restringersi dei miei itinerari abituali, non ero più capitato lì.

Mi tornarono alla mente le lunghe estati dei tempi del liceo, le scampagnate lungo il Rio Maggiore, i balli impacciati tra i pini al suono del mangiadischi rosa, le compagne di scuola, i primi, castigati due pezzi, il profumo di alghe macerate del Rio, la voglia impaziente di un futuro ormai dimenticato. Tutto era più piccolo, ora: la cascata sotto il ponte, il mulino abbandonato, la pineta, la cappella. Piccolo e fermo, come nella palle di vetro con la neve artificiale. Stavo guardando e ricordando quando, alle mie spalle, una voce mi parlò dalla penombra del tempietto. – buongiorno…non ci voleva proprio questa pioggia…era una giornata così bella! Mi girai e provai a distinguere il volto nell’oscurità. Era una ragazza dai lineamenti un po’ duri, ma non sgradevoli.

Lunghi, mossi capelli castani incorniciavano due grandi occhi chiari, un naso diritto e affilato, due labbra sottili socchiuse in un sorriso illuminato da denti bianchissimi. Alta e magra, quasi segaligna, stava appoggiata in fondo alla cappelletta, di lato all’immagine della madonnina, con le lunghe braccia raccolte contro il petto. Disse quelle parole scuotendo sconsolatamente il capo. Indossava un vestitino di cotone bianco con delle stampe di mazzi di fiori di campo che mi sembrò un po’fuori stagione, considerando il nostro maggio, pazzerello e incostante. – sì, è un vero peccato…avrei voluto arrivare almeno fino a Casa Janni, ma temo che dovrò rinunciare al mio proposito e tornarmene a casa… – di dov’è, lei? mi domandò con una voce che, forse per la riflessione della volta del tempietto, mi parve, allo stesso tempo, cristallina e profonda. Parlammo per un po’, mentre io aspettavo che spiovesse. Mi disse che stava aspettando un ragazzo di Capugnano con il quale si erano dati appuntamento e che, purtroppo, quel temporale aveva rovinato tutto: difficilmente, Gildo (quello era il suo nome) sarebbe sceso lungo il sentiero che dalle Croci porta fino a Pallareda, sotto quell’acquazzone. Sospirò e sembrò arrossire un po’.

Mi parve un fatto insolito quell’appuntamento così lontano dalle strade percorribili dalle automobili, in un luogo che, ormai da molti anni, era regno incontrastato di daini e cinghiali, di fronte ai ruderi di un vecchio mulino incendiato, ormai sepolto sotto l’edera e la vitalba. Il temporale finì, ed io la salutai, incamminandomi verso casa.

***

Passò qualche mese. L’estate ormai stava finendo e io decisi di portare Tobia a fare l’ultimo bagno della stagione sotto il ponte di Pallareda: lui correva davanti a me, fermandosi ogni tanto a fiutare il passaggio degli animali selvatici e a controllare che non rimanessi troppo indietro. Il bosco era stremato, esausto per la lunga siccità che ci aveva portato quell’estate. Le prime foglie secche degli ontani e dei carpini avevano cominciato a coprire le piagne della mulattiera e sussurravano sotto i miei passi. Più sotto, il Rio Maggiore scorreva a fatica e la poca acqua si raccoglieva, verde e opaca, nelle pozze tra i sassi ricoperti di muschio ingiallito. Un forte odore di fieno in decomposizione rendeva l’aria pesante al respiro. Attraversai il ponte, ormai in piena ombra, e guardai giù, la cascata: c’era lei. Era seduta su un masso e, come incantata, stava accarezzando l’acqua con la mano. Le feci un cenno, ma non mi vide. Allora, con voce un po’incerta, provai a salutarla.

Lei, come richiamata da un sogno, alzò lo sguardo. Mi riconobbe e sorrise. Scesi la scarpata a fianco del ponte e, saltando di sasso in sasso, mi andai a sedere su una grossa pietra di fronte a lei. Portava lo stesso abito dell’altra volta e il suo viso era stranamente pallido, come se non venisse dall’estate. Sul suo grembo giaceva abbandonato un mazzetto di garofanini. Mi disse che stava aspettando Gildo, ma che sentiva che non sarebbe venuto. Mi confessò che i genitori di lui,appartenenti alla famiglia dei Capponi, la più ricca di Capugnano, non volevano che si vedessero, che avevano vergogna di lei e che, le poche volte che era stata a casa loro, avevano sempre avuto cura di nasconderla agli occhi degli eventuali ospiti in visita.

Le dissi che mi risultava incomprensibile come si potesse “aver vergogna” di lei e, stupidamente, le domandai del perché non tentasse di dimenticare questo amore difficile, considerando che era così giovane e carina, con tutta la vita ancora davanti. Senza guardarmi, con la sua voce ad un tempo cristallina e profonda,continuando ad accarezzare la corrente, mi rispose che il suo non era un amore, che Gildo per lei era più di un fratello e che non poteva vivere senza godere della sua delicata sensibilità. – temo che, senza di me, la soave debolezza del suo cuore non troverà più riparo… mi disse infine. Questa volta guardandomi negli occhi. Restammo lì ancora per un po’, muti a guardare Tobia che abbaiava ad un rospo, immobile su un sasso in mezzo alla pozza. Tornando verso casa, rimuginai a lungo su quella storia un po’ improbabile, sui miei due incontri con una giovane donna che pareva fuori del tempo, per il vestito che portava, per il suo modo di parlare, per il sentimento che affermava di provare.

***

Passò un inverno uggioso e buio, prima umido, poi gelato e nevoso. Io e Tobia lo attraversammo come naufraghi tra il divano e il camino. A primavera, improvvisamente, si sparse per Porretta la voce che quelli del Comune avevano deciso di sostituire le spallette di sasso del ponte romanico di Pallareda con un guard rail metallico. Lo scandalo fu enorme e, come sempre, passeggero. Fu inutile obiettare che di lì passava, al massimo, qualche raro trattore e il fuoristrada di quelli del tiro con l’arco e che quel ponte si poteva considerare, a tutti gli effetti, un monumento di importanza storica. Niente, la decisione fu presa e i cittadini tornarono a giocare a ramino nei bar. Con Tobia, decidemmo di andare a vedere quello scempio. La mulattiera era devastata: per far passare il camion e la ruspa avevano allargato la carreggiata, tagliando molti alberi e rovinando la massicciata di sasso, ora affondata nel fango quasi per intero.

Arrivammo al ponte che il disastro era già avvenuto: gli operai stavano fissando l’ultimo nastro ai montanti. La ruspa aveva spianato il prato che prima scendeva dolcemente ondulato verso il rio, tra ginepri e ginestre, dipingendo con la sua benna un paesaggio lunare, fatto di pietre e melma, dove il passato non avrebbe mai più trovato posto. Appoggiato al muretto del santuario, di là dal ponte, Don Grattugia, parroco di Capugnano, osservava i lavori. Attraversai il ponte e lo raggiunsi. Gli chiesi che cosa ne pensasse di quell’innesto di modernità metallica posto di fronte alla secolare madonnina affidata alla sua cura. Si strinse nelle spalle, strisciando le mani sulla tonaca. – siamo vecchi, caro mio! E ogni cambiamento lo viviamo come uno stupro alla nostra storia, ma tutto va avanti e noi siamo solo scorie che il Signore, prima o poi, si degnerà di richiamare a sé… Mi tornò in mente la mia conoscenza pallarediana e gli chiesi se conoscesse un tal Gildo Capponi, pecorella della sua parrocchia. Mi rispose, dopo averci pensato un po’su. – non c’è alcun Capponi, né a Capugnano, né a Castelluccio.

I Capponi, qui da noi, comunque, sono stati una famiglia importante, molto tempo fa. Un suo esponente, Clemente, fu addirittura Nunzio Apostolico a Vienna. Ma si parla della seconda metà del settecento… Io sono parroco qui da mezzo secolo e, nell’esercizio del mio ministero, mai ho avuto a che fare con un Capponi… Fui stupito e gli raccontai dei miei due incontri, della ragazza che aspettava invano un certo Gildo Capponi, il quale avrebbe dovuto raggiungerla scendendo dalla sua casa di Capugnano lungo la mulattiera di Casa Janni, dei suoi genitori che osteggiavano la loro frequentazione, di quella sua mansueta tristezza che mi aveva stretto il cuore. Don Grattugia, salutandomi, mi assicurò che avrebbe chiesto ai vecchi del luogo e svolto ricerche nell’archivio della parrocchia per capire se, magari, un Capponi avesse una seconda casa nella zona e venisse a soggiornare lì d’estate.

***

Passai giorni di lavoro molto intenso. Stavo registrando, finalmente, le musiche di un lavoro che mi aveva totalmente assorbito negli ultimi tre anni. Era una suite ispirata a “Il castello di Otranto”, di Horace Walpole. La mia casa era piena di amici musicisti che erano arrivati qui da me, in montagna, dalle loro città per aiutarmi nell’impresa. Quando suonò il telefono e riconobbi la voce di Don Grattugia, confesso che provai un moto di fastidio: stavo per spegnere il cellulare ed entrare nella saletta dove registravamo. – vieni su in parrocchia, quando puoi. Ho delle cose da dirti a proposito di quel tuo Gildo Capponi… La mattina dopo, contravvenendo alle mie consolidate abitudini, mi alzai presto e, presa la macchina, andai alla Chiesa Parrocchiale di Capugnano. Don Grattugia stava seduto davanti a una tazza di caffelatte.

Quando mi vide, si alzò e mi venne incontro a larghi passi, pulendosi la bocca con la manica della tonaca. Scendendo le scale, mi prese a braccetto e cominciò a raccontarmi quel che aveva scoperto. – dunque…nessun Gildo Capponi ha attualmente a che fare con Capugnano e dintorni, neppure come villeggiante…però, nei registri della parrocchia ho trovato una cosa curiosa…vieni, che adesso ti faccio vedere… Entrammo nella polverosa sala dell’archivio parrocchiale mentre un raggio di pallido sole, dalla grande finestra, era arrivato ad illuminare il vecchio registro delle nascite abbandonato aperto sul grande tavolo di olmo.

Don Grattugia si sedette e, inforcati gli occhiali sporchi, cominciò a scendere con il dito sulla pagina ingiallita. – vedi…in effetti, un Gildo Capponi a Capugnano c’è stato, ma dubito che sia quello che cercavi tu: è stato registrato il 24 agosto 1901, figlio di Ermete Capponi e di Antonia Corsini. Nelle note che lo riguardano c’è scritto che era un ragazzo, come dire…originale. Aveva l’abitudine di vestirsi da donna e questo provocava dolore ai genitori che si vergognavano. Vedi, qui c’è scritto che morì nel 1922, presso l’ Ospedale provinciale Roncati in Bologna per infermi di mente… comunque, è sepolto qui da noi… Attraversammo la strada e salimmo al cimitero: Don Grattugia mi indicò una ricca cappelletta mortuaria, in fondo al vialetto. Passammo tra le povere, antiche croci di quel vecchio cimitero che stava per essere chiuso, sostituito da uno più moderno e più comodamente raggiungibile, a metà strada tra Capugnano e Castelluccio. Entrammo e il parroco mi indicò una lastra di marmo, in alto. Mi avvicinai e lessi: “ il giorno 23 ottobre 1922 rese la sua giovane, bella anima al Signore, Gildo Capponi, di anni 21. I genitori, affranti, posero”.

Nella cornicetta ovale di ottone,c’era la foto. La guardai: le gore di umidità azzurrognola non avevano cancellato del tutto la sua fisionomia. Scorsi un viso dai lineamenti un po’ duri, ma non sgradevoli. Lunghi, mossi capelli castani incorniciavano due grandi occhi chiari, un naso diritto e affilato, due labbra sottili socchiuse in un sorriso illuminato da denti bianchissimi. Non c’era alcun dubbio: quel ragazzo morto cento anni fa, era lei. Trattenni il mio profondo stupore, ma credo che Don Grattugia si accorse del mio malessere perché, paternamente, appoggiò il suo braccio sulla mia spalla e mi spinse verso l’uscita della cappella. Tornammo indietro in silenzio. Soltanto al momento della mia partenza, il prete si chinò verso il finestrino aperto della mia auto e mi sussurrò, con un sorriso incerto: – e noi restiamo qui, tra le ombre, senza nulla poter sapere…

 

Stefano Testa

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