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Forse per un leggiadro gabbiano – Racconto di Silvana Ferrero

Esco dalla stazione di Rimini e sono felice ed emozionata perché rivedrò Eugenio.
Dico al taxista:
– Al Grand Hotel, per favore.
Si stupisce:
– Non lo sa che il Grand Hotel è chiuso?
Rimango senza parole. Rifletto un attimo e dico:
– Allora mi porti all’albergo Sorriso.

Al Grand Hotel approdai la prima volta nel 1985 per un errore del direttore dell’albergo Sorriso: s’era sbagliato con le prenotazioni e con i conti, e mi aveva mandata via anzitempo senza neanche scusarsi.
Erano le nove di sera, avevo perso ormai l’ultimo treno, non ricordo chi mi disse di provare al Grand Hotel. Ci arrivai trafelata, con la valigia pesante e la sacca e la borsa, i miei capelli biondi lunghi spettinati, tutta sconvolta per la fatica. Buttai sul bancone la sacca e, quasi piangendo, domandai se c’era posto per una notte o due, e quanto mi sarebbe costato.
Alla reception, in quel momento, c’era il titolare in persona, il commendatore. Mi sorrise, mi disse di non preoccuparmi, che mi avrebbe trovato una sistemazione. Rimasi colpita dalla sua cortesia. E dal suo sguardo. E dalla sua voce. E da tutto. Per farla breve: me ne innamorai all’istante. Quando ci si innamora, lo si sa: e basta.

Ma non ebbi il coraggio di dirglielo, né allora né dopo. Lui, il commendator Eugenio, aveva vent’anni più di me. Tornai quasi tutti gli anni, a primavera, a Rimini, nel suo hotel lussuoso, per poterlo vedere. Vederlo e basta: non accadde mai nulla. Fino a cinque anni fa, quando, forse, tutto ebbe inizio a causa di un gabbiano bianco.

L’autunno e l’inverno sono lunghi, nello scivolare verso la primavera: e allora, appena l’hotel apre, a Pasqua del 2006, arrivo nella stupenda cittadina sul mare: il sole caldo nelle giornate già chiare, prima freddine; le palme, le querce e i pini con tante sfumature di verde nelle giornate gemmate. Un gabbiano, passandomi accanto, si dirige verso la hall dell’albergo. Lo guardo stupita: sembra un turista, cammina a terra, poi prova a volare ma va a sbattere contro un vetro, richiude le ali: lì non può volare. Temerario riprova, finalmente trova la direzione giusta, mi guarda per un lungo momento e vola via con un grido rauco. Forse cercava del cibo per campare…

Dall’esterno delle grandi vetrate scorgo il commendator Eugenio: sto per entrare, quando lo vedo. Ha un’andatura rilassata, forse un poco più lenta o incerta che negli anni passati. Sorride di un sorriso lieve che gli scopre i denti ancora bianchi e lucenti, sotto i piccoli baffi severi. Ha quasi ottant’anni ed è ancora molto bello: i capelli argentei morbidi mossi, con la riga al centro, e due ciuffi ai lati della fronte. I suoi occhi sono magnetici, mi attraggono come una calamita.

Mi porge la mano e mi dice:
– Come sta, signora?
– Oh, salve! Bene! Qui è tutto così bello… Anche il gabbiano.
Il commendatore segue con lo sguardo il volo libero dell’uccello.

Vedo il mare, avvolto dal sole: un nastro che accieca come diamante, sul quale scivolano, in lontananza, le barche a vela candide splendenti. Dentro l’albergo, ogni cosa è studiata con gusto: la disposizione dei fiori, i decori, i quadri alle pareti; e poi nel grande giardino tropicale il maestoso vecchio pino con la chioma modellata dalla tramontana e colma di pigne. Da quei rami, quando la prima luce del mattino prende il posto dell’oscurità, odo cantare i passeri e le tortore, e talvolta gracchiare, rumorosi, i corvi.

Con una voce che non mi riconosco, roca, strana, mi sorprendo a dirgli, senza pensarci:
– Per caso non ha bisogno di una che le pulisca le scarpe?
Lui mi guarda dall’alto in basso. Non risponde subito, ma poi è secco:
– No.
Si gira e se ne va senza salutare. Resto e nervosa e confusa. Poi una folata di vento scaccia tutti i miei pensieri e il mio nervosismo, giocando con il mio cappello, che vola via.

Lo rivedo quotidianamente nei giorni successivi. Quando non va a giocare a golf, resta in hotel e passa di tavolo in tavolo dopo il pranzo, si informa se tutto va bene, ha un complimento o una parola cortese per tutti e offre il gelato ai bambini.
Eugenio sa diverse lingue e così fa da interprete per me che ho fatto amicizia con una coppia di tedeschi che lo chiamano Berlusconi.

Quando lui è presente, ogni cosa è più bella. Lui considera sacro il cliente. Mi viene in mente un sogno che ho fatto la notte stessa: nell’immensità del cielo azzurro bianche e soffici nuvole formavano un viso: mi pareva Dio… oppure era Berlusconi?

Tuttavia fra i dipendenti circola voce che il padrone cominci a perdere la memoria e a dire cose strampalate. A me non sembra, anche se lui stesso una volta mi ha accennato un problema di quel tipo: che il medico gli ha consigliato, per tenere sveglia la mente, di stare molto fra le persone, e di divertirsi e di fare ancora «farfalle», ossia debiti. Quella volta mi è scappato da dirgli:
– Se vuole, la aiuto io!
E lui si è alzato e se ne è andato subito.

Quando è fuori dall’albergo, al golf oppure a vedere una partita di calcio su Sky, lo attendo con ansia e mi emoziono quando sento, da dentro la mia camera al primo piano, la sua voce nell’ingresso o in corridoio, o anche solo un colpo di tosse. Lo curo con lo sguardo o con il pensiero mentre gioca a carte con la moglie e alcune amiche. Ma sono rassegnata, perché mi rendo conto che è un amore impossibile: lui neppure si accorge di me.

I giorni passano in fretta e io non concludo nulla. Ascolto una canzone di Jovanotti e penso che vorrei essere, per lui, giovane e bella. Certo, dentro di me c’è un’anima vecchia e giovane insieme, che ama le nuvole e tutto ciò che è dolce e indistinto: ma questo forse non basta.

Dopo qualche sera, resto sbalordita. Arriva nella sala ristorante, si dirige verso i tavoli e lo sento distintamente dire:
– Voglio questa.
Io sono seduta accanto a una signora elegante, con i capelli rossi ondulati, con la quale sto chiacchierando tranquillamente. La mia vicina, vedendo arrivare il commendator Eugenio, con una mossa vezzosa si sistema il ciuffo e accenna un sorriso.

Ma gli occhi magnetici dell’uomo, che sono gravi e dolci nello stesso tempo, guardano solo me. Si avvicina, alza una mano per farmi una carezza, e mi bisbiglia all’orecchio:
– Ti a…
Stupefatta, approfitto della circostanza per prendergli la mano e stringerla forte per un breve momento. Per un curioso caso, proprio in quell’attimo, qualcuno scatta una fotografia, come involontariamente. Fotografia che poi mi sarà consegnata, e nella quale appare evidente il mio viso incredulo.
Lui, dopo quelle rapide parole, mi fa un baciamano e se ne va.

Nella notte ho un incubo, o forse un’allucinazione: lui è accanto a me nel letto e io non riesco a muovermi né a gridare. L’indomani, a pranzo, mi accorgo del suo sguardo insistente: e per la prima volta sento tremarmi le gambe. Lui pranza con la moglie e osservo la sua bocca sensuale, i suoi capelli biondi sempre perfetti, la sua figura perennemente in movimento, i lunghi silenzi, i rari sorrisi.

Una volta mi ha parlato, orgoglioso, della moglie: una donna in gamba, giusta e generosa, con la quale però lui non ha un’intesa veramente profonda e spirituale. Dormono in lati opposti della loro casa, e quando ho chiesto qualcosa di più intimo sul loro rapporto mi ha risposto:
– La notte facciamo altro.
Cosa mai potevano fare?

Il giorno dopo, mentre passo dalla sala da pranzo alla hall, mi si avvicina e mi domanda a bruciapelo:
– Vuole fare qui l’impiegata… o l’amante?
Balbetto che sono in partenza per l’indomani, e devo preparare le valigie. Ma poi aggiungo, risoluta:
– Se proprio devo scegliere, scelgo di fare l’amante.

Lui allora passa a darmi del tu:
– Sali in camera. Tra poco vengo a coccolarti. Posso? Lasciami la porta aperta!
– Certo che può, con la nostra età è meglio essere diretti.

La tapparella è abbassata a metà. Filtra abbastanza luce, ma soffusa, in modo da non sottolineare troppo i miei sessant’anni. C’è un televisore nella stanza accanto, con il volume alto, a coprire i rumori. Quando lui arriva, anche se la porta è aperta, chiede il permesso prima di entrare.

Ci abbracciamo in piedi, molto stretti, e il mio cuore batte all’impazzata. E lui con tono di comando mi dice:
– Spogliati.

E lascia cadere a terra i suoi vestiti, mentre io li ripongo su una sedia. Penso che lui mi piace, mi piace non solo perché è ricco e intelligente, ma perché ha buon gusto, è simpatico e ha un sorriso aperto. La sua pelle è liscia, curata, profumata, e non dimostra i suoi ottant’anni.

Trova la posizione, mi bacia con passione e mi sento sempre più leggera. Faccio un movimento con il bacino. A lui manca il fiato, mi sussurra e mi chiede di dirgli:
– Eugenio, fammi male.

Vedo del sangue: mi ha ferita! Se ne accorge e dice:
– Come sei delicata.
Suona il telefono, lo chiamano; è la moglie. Esce dimenticando di infilare i sandali, ma subito torna indietro a prenderli. E se ne va senza dire più nulla. Mi viene in mente la frase di un sacerdote che dice che nella vita, per stare in piedi, bisogna mettersi in ginocchio.

Quando scendo alla reception tutti mi chiedono:
– Signora, va tutto bene?

L’indomani sono seduta accanto alla piscina, all’ombra. Lui viene da me, ordina una bottiglia di Dom Pérignon e mi dice di desiderarmi ancora, di desiderarmi di più, senza sapere perché: dato che poi non sono neppure così bella. Mi domanda se ho ancora voglia di fare l’amore e io rispondo:
– Anche subito.
E aggiunge:
– Quando ci sei tu io sono in paradiso. Perché stai qui all’ombra, non prendi il sole?
– Sei tu il sole – gli rispondo.

Giorni dopo, strofinando il naso contro il mio, mi dice:
– Sei bella.
A volte mi tiene le mani fra le sue, ritraendole quando un cameriere troppo curioso si sofferma a guardare, seguito da altri che si sporgono a spiare cosa succede.

La sera del mio compleanno la sala si riempie di rose rosse in vasi di cristallo, e lui mi dice:
– Sono tutte per te.

Da allora, ogni volta che sono tornata da lui, il suo respiro prima burrascoso e poi calmo, come quello del mare che sento vicino, è appartenuto a me, ai nostri incontri nel suo hotel.

Il taxista, davanti all’albergo Sorriso, mi dice:
– Siamo arrivati.
Scendendo dal taxi gli domando:
– Ma i titolari del Grand Hotel stanno bene?
– Sì che stanno bene: direi che si sono dati a tempo pieno al golf.
Tiro un sospiro di sollievo. Il taxista aggiunge che il Grand Hotel è in ristrutturazione e riaprirà l’anno prossimo.

Per ora ho la certezza che Eugenio mi ha regalato i miei sogni. Dicono che i ragni con la ragnatela argentata portano fortuna, e lì vicino al cancello del Sorriso ce n’è uno che sta costruendo la sua casa. La ragnatela è argentata.

Certo che vivere il presente solo di ricordi, come vivide ombre, m’importa per ora meno delle previsioni che posso ancora fare qui, dove c’è lui: rivedere un suo sguardo furtivo e intenso e stringere forte la sua mano. Il ragno è un simbolo che mi fa ricordare che il mio cuore è rimasto impigliato in una ragnatela dolce e dolorosa, dove i ricordi hanno la sostanza di cui è fatto il tempo: perché io non gli ho mai telefonato, né lo farò. Anche il silenzio è un grido d’amore, d’umiltà e di forza. E lui lo sa. Il tempo della mia permanenza qui non è ancora passato, ed è colmo di speranza: forse spunterà un raggio di sole.

 

Silvana Ferrero

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