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Felice Anno Nuovo – Racconto di Giovanna Larosa

E’ da poco passata mezzanotte. Piove a dirotto. Come ogni anno a quest’ora c’è trepidazione per i nuovi arrivi e gli addetti all’accoglienza sono tutti schierati lungo il viale in entrata, vestiti di bianco e sorridenti, pronti a riceverli. Sorridono perché sanno che questi sono i più inconsapevoli, i più incoscienti, quelli che – fino ad un attimo prima di cadere nel buco nero – erano intenti a far esplodere botti razzi e petardi e invece poi sono esplosi loro.
Avrebbero la forte tentazione di accoglierli con un bel cartello colorato con la scritta “minchioni” ma il buon Dio sa come tenere a bada il loro sarcasmo, non propriamente appropriato in Paradiso.
Le due ragazze – spinte dalla curiosità del momento – si riparano sotto un arco, serbando speranza di non incrociare sguardi familiari.
– “Se magari mi fai spazio riesco a non inzupparmi, grazie. Non pensavo piovesse anche quassù. M’immaginavo sole, prati verdi, fiori e cascate d’azzurro come negli affreschi delle chiese. Tipo un’eterna primavera che ci risparmiasse dai freddi tremori terrestri ed anche dall’asfissia estiva per la verità. Quella proprio la odio” –
– “Siamo nervosette vedo. E poi ti sbagli, piove anche qui” –
– “Per la serie non c’è soddisfazione nemmeno quando muori vero?” –
– “In un certo senso si. Almeno questo lo hai imbroccato. Quando piove quassù son secchiate, dicono sia Dio che la butta giù pesante nel tentativo di lavare la merda del mondo. Forse non ci sei abituata, da dove vieni?” –
– “Da Sulmona e tu?” –
– “Venezia. Posso dire di non sentirmi esattamente un pesce fuor d’acqua. Ma sei nuova non ti avevo mai vista prima, da quanto sei qui?” –
– “ Esattamente da dodici giorni e cazzo se mi sento un pesce fuor d’acqua io. Non ci capisco nulla di questo posto” –
– “Ma come ci sei arrivata? Di solito i racconti di viaggio con questa destinazione sono tipo quei calci nel culo dei cartoni animati che ti fiondano nello spazio e poi atterri senza nemmeno un graffio e allora davvero che non ci capisci niente. Almeno per me è stato così” –
– “Esatto! Comunque guarda, se dovessi raccontarti di come ci sono arrivata io non lo so. Ho saputo da poco che si è trattato di un incidente stradale ma, che diamine, io non ero su nessuna maledetta auto, e non ero per strada. O meglio, in strada c’ero ma giravo tra le bancarelle di un mercatino di Natale, a Berlino. Avevo in mano una sigaretta spenta mentre con l’altra giocavo con una di quelle ampolle con dentro Babbo Natale che quando le capovolgi parte la nevicata del ’56 e in un attimo mi sono ritrovata in volo senza nemmeno il tempo di pagarla. Ora mi arresteranno, credo. A proposito, hai d’accendere?” –
– “Non fumo. Tranquilla che non ti arrestano, non ci trova nessuno qua” –
– “Speriamo. E tu invece?” –
– “Io non ho mai rubato niente in vita mia” –
– “Ma no scema! Dicevo tu invece com’è che sei qui?” –
– “Io ero ad un concerto. Al Bataclan di Parigi, ci sei mai stata?”
– “Non ne ho avuto il tempo” –
– “Touchè…dunque ero in questo teatro per un concerto. C’era folla. Avevo in mano la mano di Andrea poi ad un certo punto non l’avevo più, qualcosa ci aveva strappato, come una fotografia, come un colpo d’accetta che divide in due il tronco. Sento ancora il rumore della mia faccia che si spezza ed un calore strano, che scivola giù come colata di lava. Sento il respiro che si arrampica in me e non trova modo per riempirmi e strillare, e le urla, quelle urla di chi mi guarda e poi si tocca per vedere se la lava ha ricoperto anche i loro volti.
Poi mi sono svegliata, completamente immersa in un silenzio che non capivo. Ed eccomi arrivata. Devo andare ora, è tardi, ci si vede domani. E preparati, ci sarà un gran lavoraccio per allestire la stanza dei soliti buoni propositi” –
– “Ok. Ma guarda che io poi stacco, non ho mai perso un concerto di Capodanno in vita mia. E poi aspetta, te ne vai cosi?” –
– “Cos’altro vuoi sapere?” –
– “Oh insomma! Lo hai capito o no cosa ci è successo?” –
– “Non lo capiremo mai. Com’è che ti chiami?” –
– “Fabrizia” –
– “Piacere, Valeria” –
– “Dicevo che non lo capiremo mai Fabrizia. Certe risposte nemmeno Dio le sa. Comunque non preoccuparti per il concerto, da queste parti te lo suona Strauss in persona” –

Valeria si avvia verso il viale e scompare ingoiata dal buio e dal rumore della pioggia che continua a battere il tempo di una sinfonia implacabile.
I ragazzi vestiti di bianco hanno chiuso i cancelli e Fabrizia, intorpidita dal freddo, si stringe nel paltò inumidito ed affonda le mani nelle tasche, cercando calore.
Le sfugge un sorriso nello scorgere quelle forme familiari, che sembrano rimaste apposta in un silenzio di attesa, per poter riaffiorare e portare un po’ di conforto al suo sconforto. Tira fuori l’ampolla e la agita, la agita forte e poi sempre più forte come a voler eternare quella neve finta che sa così tanto di vita vera.
Prende anche la sigaretta, ormai avvizzita.
“M’avessero almeno mandata all’inferno, adesso avrei d’accendere”.

Giovanna Larosa

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