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“Voce di vedetta morta”, l’atrocità della guerra in versi

Con “Voce di vedetta morta”, il poeta Clemente Rebora imprime su carta l’orrore e l’insensatezza della guerra.

Oggi condividiamo una poesia che ci ricorda quanto sia orribile e insensata la guerra. Clemente Rebora, che ha vissuto in prima persona il trauma del Primo Conflitto Mondiale, ha dedicato larga parte della sua produzione poetica ad esternare il dolore e le sofferenze che scaturiscono dalla violenza dei conflitti. In particolare, leggiamo “Voce di vedetta morta”, un componimento che rappresenta un perfetto esempio della poesia espressionista di Rebora.

Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sòffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.

L’incomunicabilità della guerra

Dopo aver letto “Voce di vedetta morta” dobbiamo per forza renderci conto di quanta negatività susciti la guerra. Con questi versi, infatti, Clemente Rebora ci rende partecipi del dolore che egli stesso ha provato nel periodo in cui si trovava al fronte, quando infuriava la Prima Guerra Mondiale.

Chi parla è un uomo che è rimasto vittima della guerra, una sentinella, la “vedetta morta” del titolo, appunto. Grazie alla sua voce, il poeta esterna l’impossibilità di comunicazione che deriva dall’esperienza traumatica del combattimento.

Sulla scena c’è un corpo mutilato, senza vita, un viso sfigurato che emerge dal “fetore” della morte. È il corpo della sentinella, che ormai defunta riflette su ciò che è stato. Se potesse piangerebbe, ma ormai non può più.

Comunicare è impossibile. Esprimere il dolore vissuto in guerra è inconcepibile. L’unico momento in cui forse si può rendere qualcuno partecipe dell’oscurità che vive dentro chi ha patito la guerra, è quello avvolto nella notte, quando si condivide il proprio letto con la donna amata e anch’essa ricambia il sentimento. Una poesia triste, piena di riferimenti disforici, che esprime appieno il senso di doloroso spaesamento che si determina in coloro i quali hanno combattuto al fronte e non tornano più come prima.

Clemente Rebora

Clemente Rebora, vissuto tra il 1885 e il 1957, è stato un insegnante di lettere, giornalista, poeta e traduttore di autori russi.
Milanese, ha collaborato con riviste quali “La Voce”, “Rivista italiana” e “Diana”.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Rebora viene chiamato alle armi. La guerra di trincea lo cambia profondamente. L’uomo ritorna alla vita di tutti i giorni con difficoltà. I temi della violenza, della guerra e della trincea saranno ricorrenti nella sua produzione poetica.

Nel 1928, Rebora vive un momento di forte crisi che lo porta a convertirsi alla religione cattolica. L’anno seguente prende i sacramenti, e viene ordinato sacerdote nel 1936. Nella sua formazione, così come nella sua opera, si possono distinguere tre fasi: la prima è definita “esistenzialistico-letteraria”, la seconda “umanitario-sincretistica”, e l’ultima “filosofico-religiosa”.

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