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“Un piccolo pesce rosso” (1928), la preziosa poesia giovanile di Pavese sull’anima e i suoi confini

Si intitola “Un piccolo pesce rosso” questa preziosa poesia giovanile nata dalla penna di un già maturo e consapevole Cesare Pavese.

Chi non ha mai riflettuto sul suo io più nascosto, su quell’anima di cui tanti filosofi hanno dissertato, chiamandola di volta in volta con nomi diversi ma ipotizzando sempre una sua esistenza? Chi non si è mai sentito prigioniero senza via d’uscita? In “Un piccolo pesce rosso”, un giovane Cesare Pavese riflette sugli abissi dell’anima attraverso un sorprendente parallelismo.

“Un piccolo pesce rosso” di Cesare Pavese

Un piccolo pesce rosso
s’aggira stanco nel cristallo limpido,
sospeso a mezz’ acqua,
coi grandi occhi stupiti.
La mia anima ora
è un abisso dell’oceano
dove tutte le scosse più profonde
tacitamente muoiono.
Nel gran gelido amaro
paiono e passano paurosamente
fosforescenti brividi.
La mia anima è un abisso
tutto striato di febbri.
L’immensità del buio
la soffoca di silenzio.
Il pesce rosso ora
s’agita nel cristallo
e a tratti viene a sbattervi
coi grandi occhi stupiti.

Il significato di questa poesia

Dove leggere “Un piccolo pesce rosso”

Composta il 7 maggio 1928, “Un piccolo pesce rosso” fa parte della raccolta Le febbri di decadenza, un insieme di poesie giovanili di Cesare Pavese, in cui già si intravede l’ossatura tematica e stilistica del suo universo poetico.

In questi testi, lo scrittore piemontese – allora poco più che ventenne – esplora i territori oscuri della coscienza, indagando con inquietudine la solitudine, il malessere esistenziale, e un senso pervasivo di estraneità rispetto al mondo.

Non a caso, il titolo della raccolta evoca un corpo percorso da febbri interiori, un’anima che arde e si disgrega sotto la spinta di pulsioni contrastanti.

Quella che abbiamo appena letto è una poesia che appartiene a un Pavese ancora in formazione, ma già potentemente capace di usare l’immagine come accesso privilegiato all’invisibile.

Qui la quotidianità – un piccolo pesce in una boccia – diventa lo specchio simbolico di un’interiorità tormentata. Siamo agli albori di quella poetica dell’alienazione e della tensione tra superficie e abisso che segnerà tutta la sua opera, anche quella in prosa.

Il pesciolino rosso e l’anima dell’io lirico

Lo stile della poesia è nitido, ma pervaso da una tensione visionaria: la limpidezza dell’acquario in cui si muove il pesce contrasta con le profondità oceaniche in cui sprofonda l’anima del poeta. Il parallelismo tra il pesce rosso e l’anima è la chiave strutturale del testo: l’uno è confinato nel piccolo spazio trasparente del cristallo, l’altra si muove in un immenso oceano, un luogo scosso da brividi fosforescenti, da silenzi soffocanti, da febbri invisibili.

Pavese costruisce un doppio binario simbolico: da una parte, la superficie, il quotidiano, l’oggetto osservabile (il pesce rosso); dall’altra, la profondità insondabile, l’angoscia che attraversa la coscienza (l’anima).

I due mondi si rispecchiano a distanza, in una danza silenziosa che attraversa tutta la poesia. Il lessico alterna concretezza e rarefazione: il “cristallo limpido” e i “grandi occhi stupiti” appartengono a una realtà osservabile, quasi infantile, mentre “l’abisso dell’oceano”, il “gran gelido amaro”, i “fosforescenti brividi” appartengono al regno oscuro e simbolico della psiche.

La ripetizione finale del pesce che “sbattervi / coi grandi occhi stupiti” chiude il cerchio, ribadendo il legame speculare tra creatura e creatore, tra animale e coscienza.

Cosa vuole comunicare questa poesia?

Il significato della poesia risiede proprio in questa metafora centrale: il pesce rosso rappresenta l’anima prigioniera, il pensiero che si agita dentro confini invisibili, che sbatte contro i limiti della propria condizione.

È un’immagine di solitudine estrema, ma anche di consapevolezza: l’occhio del pesce, così grande e stupito, diventa l’occhio dell’uomo che osserva se stesso nella propria alienazione.

L’anima, immersa in un oceano “gelido” e “amaro”, non è altro che il riflesso ingrandito di quella stessa prigionia, estesa all’infinito. Pavese suggerisce, con struggente intensità, che l’essere umano è come il pesce: destinato a muoversi in un ambiente che non ha scelto, in balia di forze più grandi, costretto a urtare i confini del reale con sguardi incompresi.

Il buio e il silenzio non sono solo esterni, ma si fanno materia dell’anima stessa, che assorbe il mondo circostante e lo restituisce sotto forma di febbri, tremori, vertigini.

“Un piccolo pesce rosso” è dunque una poesia breve ma potentissima, capace di tradurre in immagini delicate un disagio profondo, senza mai cedere al sentimentalismo.

Un piccolo capolavoro in cui la giovinezza di Pavese già lascia intravedere la maturità di uno sguardo lucido e dolorosamente consapevole.

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