“Se tu venissi in autunno” di Emily Dickinson, poesia sul desiderio di un amore distante

26 Settembre 2025

“Se tu venissi in autunno” è una poesia di Emily Dickinson che racconta il fluire del tempo e l'impazienza dell'attesa quando si è innamorati.

“Se tu venissi in autunno” di Emily Dickinson, poesia sul desiderio di un amore distante

Se tu venissi in autunno è una poesia di Emily Dickinson che mette in correlazione l’impazienza dell’attesa, l’atmosfera autunnale e il sentimento di un’innamorata che non desidera altro che rivedere la sua metà. È una poesia che dà voce alla distanza, che non è soltanto dettata dai chilometri, ma dalla voglia di poter entrare e vivere in connessione con chi si ama.

In questa poesia la poetessa americana rende tangibile l’esperienza dell’attesa, con le sue sfumature di speranza, tormento e mistero. L’amore diventa la misura del tempo, e il tempo, a sua volta, diventa una ferita che non si può guarire.

Se tu venissi in autunno è il Frammento 511  della raccolta della raccolta di poesie postuma The Poems of Emily Dickinson, curata da Thomas Herbert Johnson e pubblicata nel 1955.

Leggiamo questa meravigliosa poesia d’amore di Emily Dickinson per coglierne il significato.

“Se tu venissi in autunno” di Emily Dickinson

Se tu venissi in autunno,
spazzerei via l’estate
con mezzo sorriso e mezzo disdegno,
come la massaia fa con una mosca.

Se potessi rivederti fra un anno,
avvolgerei i mesi in gomitoli
e li riporrei in cassetti separati,
per timore che i numeri si confondano.

Se fosse questione di secoli,
li conterei sulla mano,
sottraendo finché le dita non cadessero
nella Terra di Van Diemen.

Se fossi certa che, finita questa vita,
la tua e la mia si ricongiungessero,
getterei via l’esistenza come una scorza
e afferrerei l’eternità.

Ma ora, incerta dell’ampiezza
di ciò che ci separa,
mi punge come un’Ape fantasma,
che mai rivela il suo pungiglione.

“If you were coming in the Fall”, Emily Dickinson

If you were coming in the Fall,
I’d brush the Summer by
With half a smile, and half a spurn,
As Housewives do, a Fly.

If I could see you in a year,
I’d wind the months in balls –
And put them each in separate Drawers,
For fear the numbers fuse –

If only Centuries, delayed,
I’d count them on my Hand,
Subtracting, till my fingers dropped
Into Van Dieman’s Land.

If certain, when this life was out –
That your’s and mine, should be –
I’d toss it yonder, like a Rind,
And take Eternity –

But, now, uncertain of the length
Of this, that is between,
It goads me, like the Goblin Bee –
That will not state – it’s sting.

L’attesa dell’amore e l’illusione del tempo

Nella poesia Se tu venissi in autunno Emily Dickinson, che sta aspettando l’arrivo di una persona cara, ci racconta come sia difficile affrontare un’attesa quando hai un obiettivo da raggiungere. Il tempo che passa, ma che in realtà sembra non passare mai, diventa quasi un nemico, che non dà certezze e porta allo sfinimento.

Questa poesia affronta tre nodi universali dell’esperienza umana. L’attesa, che dilata il tempo e trasforma i giorni in ferite. L’amore, che diventa misura assoluta della vita, capace persino di relativizzare secoli e di proiettarsi oltre la morte. E infine l’incertezza, il vero pungiglione che tormenta l’anima, perché rende impossibile sapere quando, o se, il desiderio verrà colmato.

Emily Dickinson costruisce una meditazione poetica che parte dal quotidiano (una mosca, un cassetto, una massaia) per arrivare a toccare l’eternità.

La spiegazione dei versi di “Se tu venissi in autunno”

La poesia inizia la poesia con un’immagine domestica, quotidiana, ma che già rivela una verità: anche l’attesa più corta porta con sé un’inquietudine sottile. Emily Dickinson manifesta immediatamente cosa sarebbe disposta a fare se l’amato arrivasse. Pur di averlo vicino, anche se arrivasse nel malinconico autunno,  spazzerebbe via tutto ciò che di bello e gioioso l’estate sa offrire, con leggerezza, come una massaia che scaccia una mosca con un misto di sorriso e fastidio.

L’immagine è semplice, quasi banale, ma proprio per questo potente. L’attesa breve, quando è misurabile, sembra quasi un gioco, un fastidio sopportabile. Dietro la leggerezza, però, si nasconde già un presagio. Il tempo dell’amore non è mai davvero innocuo, anche quando appare breve, perché porta sempre con sé una punta di inquietudine.

Nella seconda strofa, la poetessa continua a manifestare cosa sarebbe disposta a fare pur di rivedere l’amore della sua vita. Se si trattasse di attendere un anno, la poetessa immagina di avvolgere i mesi come fili di lana, trasformandoli in gomitoli da riporre in cassetti separati.

È un’immagine dolce, delicata, piena di malinconia, dove  il tempo diventa qualcosa di concreto da sistemare e custodire, come se l’ordine potesse alleviare il dolore dell’assenza. In questo gesto paziente si riflette la volontà di dare forma a ciò che, per natura, sfugge a ogni controllo: il tempo che passa.

Nella terza strofa il tempo si dilata si arriva ai secoli. Emily Dickinson immagina di contarli con le dita, uno a uno, fino a farle cadere stanche nella Terra di Van Diemen, simbolo di lontananza ed esilio, e che corrisponde all’odierna Tasmania. Il nome attuale è quello del navigatore olandese che la scoprì, ovvero Abel Janszoon Tasman. Fino al 1853 l’isola prendeva invece il nome da Antoon Van Diemen, un amministratore coloniale, sempre olandese.

È chiaro che il senso è che anche la distanza si fa esagerata, proprio per dare il senso di cosa sarebbe disposta a fare per soddisfare il proprio desiderio di ricongiungersi. È chiaro che il tempo non è più un flusso ordinabile, si dilata a dismisura, diventando prigionia interiore, una condanna che consuma e logora senza fine.

Se ci fosse certezza di ritrovarsi oltre la morte, la poetessa getterebbe via la vita come una scorza senza valore, per afferrare subito l’eternità. L’immagine è radicale e assoluta,  l’amore è più forte della vita stessa, unico vero ponte verso l’infinito.

La chiusura della poesia è la più dolorosa. Non è il tempo lungo a ferire, ma l’impossibilità di conoscerne la misura. L’attesa diventa un tormento indefinito, come un’ape fantasma che ronza senza mai mostrare il suo pungiglione. L’incertezza è il vero veleno del tempo: ci punge senza rivelare quando finirà.

L’attesa come misura dell’amore e dell’esistenza

Se tu venissi in autunno di Emily Dickinson non è soltanto il canto di un amore lontano. È la radiografia dell’attesa, intesa come condizione esistenziale che accompagna ogni essere umano. Attendere significa riconoscere che la vita non ci appartiene mai del tutto, è sempre sospesa a qualcosa che deve ancora avvenire, a qualcuno che deve ancora arrivare.

Emily Dickinson ci mostra che non è la durata del tempo a ferire, ma la sua opacità. Si può sopportare un anno, persino secoli, se si conosce la fine. Ciò che tortura è l’assenza di misura, l’incertezza che corrode, come il ronzio insistente di un’ape che non mostra il pungiglione.

Oggi questa intuizione risuona con forza: sempre più coppie, per motivi di studio, di lavoro o di salute, vivono la distanza come condizione inevitabile. Ma la lontananza non è solo geografica: può esserci anche quando si vive sotto lo stesso tetto. La mancanza di dialogo, l’incapacità di dirsi ciò che si ha dentro, genera una distanza invisibile che pesa quanto e più dei chilometri. Si può essere vicini, eppure sentirsi irrimediabilmente lontani.

L’attesa non è dunque un sentimento romantico ma una realtà concreta, che mette alla prova i legami e misura la profondità dei sentimenti. Dickinson ci ricorda che l’attesa non si elimina né si addomestica. Ma proprio in questo dolore senza appigli si rivela la forza dell’amore: solo chi desidera con intensità accetta di vivere nel tempo sospeso, nel vuoto che non dà garanzie. L’amore, così, diventa l’unico ponte capace di dare senso al tempo e di sfidare persino l’eternità.

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