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Una poesia di Pasolini per comprendere la rabbia che abbiamo dentro

In questa poesia del 1960, Pasolini descrive l'emozione della rabbia, avvertita come un piccolo demone che avvelena la sua anima e di cui non riesce a liberarsi

Fra i maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo, Pier Paolo Pasolini è stato anche un poeta. Domani, 5 marzo, si celebrano i 101 anni della sua nascita. Nelle sue poesie Pasolini unisce il piano ideologico a una dimensione più intima e autobiografica, dove il poeta scandaglia sé stesso e le sue emozioni, mettendone in luce le contraddizioni. Da questo profondo lavoro di scavo, nasce la poesia “La rabbia” del 1960, dove Pasolini descrive l’emozione della rabbia, avvertita come un piccolo demone che avvelena la sua anima. 

Pasolini, un poeta impegnato

Come poeta, Pasolini propone una poesia narrativa e civilmente impegnata, che tocca con due raccolte: le “Le ceneri di Gramsci” (1957) e “La religione del mio tempo” (1961). Negli anni successivi, Pasolini abbandona la poesia, in quanto considerata incapace di misurarsi con le nuove problematiche della società. Fino a quando nel 1960 scopre il linguaggio del cinema e si allontana definitivamente della letteratura. 

“La rabbia”, una poesia del periodo romano

Nel 1955 la famiglia Pasolini si trasferisce in un’elegante palazzina di Monteverde Vecchio in via Carini, la stessa casa in cui abita la famiglia Bertolucci. E’ lì che la madre potrà sistemare un piccolo giardino descritto nella poesia “La rabbia” del 1960. In mezzo ai cespugli, gli alberi, alle rose, il poeta si rende conto di ciò che ha significato l’esperienza romana. E, qui, esplora a fondo l’emozione di rabbia che il poeta avverte dentro sé stesso come un demone “piccolo, sordo, fosco”. Una rabbia che Pasolini paragona a quella dei giovani contro il vecchio mondo. Una rabbia che non lo rende padrone di se stesso, che lo fa a pezzi, fino a renderlo un “rottame”.

La rabbia – Pier Paolo Pasolini

Vado sulla porta del giardino, un piccolo
infossato cunicolo di pietra al piano
terra, contro il suburbano
orto, rimasto li dai giorni di Mameli,
coi suoi pini, le sue rose, i suoi radicchi.

Intorno, dietro questo paradiso di paesana
tranquillità, compaiono,
le facciate gialle dei grattacieli
fascisti, degli ultimi cantieri:
e sotto, oltre spessi lastroni di vetro,
c’è una rimessa, sepolcrale. Sonnecchia,
al bel sole, un po’ freddo, il grande orto
con la casetta in mezzo ottocentesca,
candida, dove Mameli è morto,
e un merlo cantando, trama la sua tresca.

Questo mio povero giardino, tutto
di pietra… Ma ho comprato un oleandro
nuovo orgoglio di mia madre
e vasi di ogni specie di fiori,
e anche un fraticello di legno, un putto
obbediente e roseo, un po’ malandro,
trovato a Porta Portese, andando
a cercare mobili per la nuova casa. Colori,
pochi, la stagione è così acerba: ori
leggeri di luce, e verdi, tutti i verdi…

Solo un po’ di rosso, torvo e splendido,
seminascosto, amaro, senza gioia:
una rosa. Pende umile
sul ramo adolescente, come a una feritoia,
timido avanzo d’un paradiso in frantumi…
Da vicino, è ancora più dimessa, pare
una povera cosa indifesa e nuda,
una pura attitudine
della natura, che si trova all’aria, al sole,
viva, ma di una vita che la illude,
e la umilia, che la fa quasi vergognare
d’essere così rude
nella sua estrema tenerezza di fiore.
Mi avvicino più ancora, mi sento l’odore…

Ah, gridare è poco, ed è poco tacere:
niente può esprimere una esistenza intera!
Rinuncio a ogni atto… So soltanto
che in questa rosa resto a respirare,
in un solo misero istante,
l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…
Perché non reagisco, perché non tremo
di gioia, o godo di qualche pura angoscia?
Perché non so riconoscere
questo antico nodo della mia esistenza?
Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone
della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco;
sentimento che m’intossica
esaurimento, dicono, febbrile impazienza
dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza.

Il dolore che da me a poco a poco mi aliena, 
se io mi arrabbio appena,
si stacca da me, vortica per conto suo,
mi pulsa disordinato alle tempie,
mi riempie il cuore di pus,
non sono più padrone del mio tempo…
Niente avrebbe potuto, una volta, vincermi.
Ero chiuso nella mia vita come nel ventre
materno, in quest’ ardente
odore di umile rosa bagnata.

Ma lottavo per uscirne, là nella provincia
campestre, ventenne poeta, sempre, sempre
a soffrire disperatamente,
disperatamente a gioire… La lotta è terminata
con la vittoria. La mia esistenza privata
non è più racchiusa tra i petali d’una rosa,
una casa, una madre, una passione affannosa.
È pubblica. Ma anche il mondo che m’era ignoto
mi si è accostato, familiare,
si è fatto conoscere, e, a poco a poco,
mi si è imposto, necessario, brutale.
Non posso ora fingere di non saperlo:
o di non sapere come esso mi vuole.

Che specie di amore
conti in questo rapporto, che intese infami.
Non brucia una fiamma in questo inferno
di aridità, e questo arido furore
che impedisce al mio cuore
di reagire a un profumo, è un rottame
della passione… A quasi quarant’anni,
io mi trovo alla rabbia, come un giovane
che di sé non sa altro che è nuovo,
e si accanisce contro il vecchio mondo.
E, come un giovane, senza pietà
o pudore, io non nascondo
questo mio stato: non avrò pace, mai.

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