Non c’è più un tempo è il componimento poetico di un giovane Andrea Camilleri, all’epoca aveva solo ventitre anni, che riesce a dimostrare una contemporaneità unica. Un testo che sembra scritto oggi, in un’epoca ferita, frammentata, incerta, ma in cui ancora si può si deve credere nella possibilità di rinascere.
Credere che la vita possa cambiare e che gli umani possano incontrarsi per affrontare il futuro con maggiore positività non è solo un’esigenza poetica, ma un atto di coscienza civile, sociale. Non si può continuare a vivere nella discordia e nella contrapposizione, perché sulla Terra c’è troppo dolore, troppa sofferenza a causa dell’odio, dell’egoismo, di un’eccesso di galoppante ignoranza in grado di generare muri ideologici pericolosissimi.
Il dolore degli altri è anche il nostro, bisogna avere ilm coraggio di accettarlo e di farsene carico. La vera rivoluzione culturale parte dalla solidarietà e dall’incontro. L’egoismo genera solo guai.
Non c’è più un tempo è l’undicesimo componimento di una lunga poesia intitolata Tempo e che Andrea Camilleri scrisse nel 1948 e secondo alcune fonti trovò pubblicazione il 26 maggio del 1952, nel numero 6, anno V, della rivista di poesia Momenti.
Leggiamo questa splendida e visionaria poesia di Andrea Camilleri per viverne e interpretarne il significato.
Non c’è più un tempo di Andrea Camilleri
Non c’è più un tempo per nascere un tempo per morire
si nasce e si muore nello stesso momento infinite morti
ci assediano è l’ora che ognuno raccolga
in sé la morte degli altri il frumento assideratodal gelo il topo che si dibatte nella gabbia
il marito che piange la moglie infedele. E l’ora
di cogliere il dolore degli altri in una mano
e portarsela in fronte a stamparvi croci e croci in rossoudire il nostro grido nella bocca dell’uomo
che ci passa accanto per caso è l’ora di aprire
tutte le finestre tutte le porte abbattere i muri se occorre
per poterci guardare negli occhi trovare una parolanuova che non sia preghiera ma urlo.
È l’ora che dalla morte nasca la vita.
L’urlo della rinascita di Andrea Camilleri
Non c’è più un tempo è una poesia di Andrea Camilleri che ci insegna che bisogna avere il coraggio di trasformarsi, di cambiare, di migliorarsi. È utile soprattutto dopo aver passato die momenti terribili di sviluppare una nuova coscienza e cercare di superare le tragedie del passato e purtroppo del presente per costruire qualcosa di nuovo, di migliore.
La poesia si apre con un verso biblico “Non c’è più un tempo per nascere un tempo per morire”, che fa parte del terzo capitolo delle Ecclesiaste (Qoelet). La vita ha una sua ciclicità che va rispettata, ma non c’è una separazione netta tra l’inizio e la fine. La vita è un flusso continuo dominato dall’incertezza e e della transitorietà tipica della condizione umana.
Camilleri però viole aggiungere un rilievo di grande attualità e di apertura mentale. Nega l’ordine naturale della vita, crercando di condividere che non esiste più un tempo giusto per vivere e uno per morire, perché la storia ha smesso di rispettare il ritmo umano.
Accettare il cambiamento per migliorare tutti insieme
Nel 1948, questo significava vivere nel trauma del dopoguerra, ma oggi risuona in modo ancora più ampio. In un mondo sconvolto da crisi continue (ambientali, umanitarie, digitali), vita e morte convivono simultaneamente, si accavallano, si confondono. Il tempo lineare è rotto. È il tempo dell’urgenza permanente, dell’allarme continuo, della perdita di un prima e di un dopo.
“Si nasce e si muore nello stesso momento infinite morti ci assediano” è la vita stessa che impone di saper accettare il cambiamento e di guardare nella direzione giusta per coglierne gli aspetti positivi. In ogni momento di passaggio serve sviluppare la consapevolezza che può nascere una responsabilità nuova.
Il morire significa quindi qualcosa che s’interrompe, un’amicizia, una storia d’amore, un lavoro, un affetto. tante volte si finisce per vivere un assedio che corrisponde ad una parola precisa: non si scappa, non ci si difende senza una scelta radicale. Il nemico non è fuori: è ovunque. Non si tratta più di salvarsi da soli, ma di comprendere che la morte dell’altro ci tocca, ci parla, ci attraversa. Il destino non è del singolo, ma della comunità, della collettività, degli altri che vivono vite come le nostre. In poche parole “siamo tutti sulla stessa barca”.
“È l’ora che ognuno raccolga in sé la morte degli altri”. È molto evidente il messaggio di Andrea Camilleri che lancia un appello etico. Bisogna capire che il dolore che vive la società non può lasciare indifferenti, serve solidarietà, serve sostenersi a vicenda, solo così la nostra condizione può migliorare e diventare migliore. Chiudersi a riccio nella convinzione che il dolore altrui non ci riguarda è da miopi, perché una società migliore aiuta a migliorare la vita dei singoli. Siamo tutti interdipendenti.
Non basta commuoversi, dice Camilleri, bisogna riconoscere che il mondo ha già perso molte primavere, molti raccolti (“frumento assiderato”). La responsabilità individuale deve diventare collettiva: o ci scaldiamo a vicenda, o quel frumento non germoglierà mai.
Il “gelo” non è solo climatico: è morale, sociale, spirituale. È l’indifferenza del mondo, è l’emarginazione. Il topo che si dibatte è il simbolo delle vite dimenticate, di chi soffre in silenzio e non ha voce. Un’immagine che ricorda le vittime di povertà, reclusione, follia, abbandono. Camilleri ci mette di fronte a una figura di dolore muto, e ci chiede di non voltare lo sguardo.
“Il marito che piange la moglie infedele” mette al centro anche la parte più indima degli umani, la ferita del cuore. Il tradimento non è raccontato dal punto di vista di chi giudica, ma da chi soffre. Il grande scrittore siciliano fa qualcosa di raro per il suo tempo: dà dignità al pianto di un uomo fragile, smarrito. Il dolore del marito non è meno autentico solo perché riguarda l’amore, non la fame. È una forma di lutto, una perdita dell’equilibrio emotivo. E la poesia ci invita a riconoscere anche questo come una morte da raccogliere.
Non esiste una gerarchia del dolore. Ogni ferita conta. Ogni singola solitudine è una croce da vedere.
E l’ora
di cogliere il dolore degli altri in una mano
e portarsela in fronte a stamparvi croci e croci in rosso
Il creatore di Montalbano arriva al gesto. Il dolore non può più restare lì, invisibile. Va preso in mano, letteralmente. L’atto è fisico, diretto, quasi rituale: come se il dolore potesse essere afferrato, trattenuto, trasmesso. Non si tratta di compatire, ma di toccare la ferita, di prenderla su di sé. È un richiamo potente all’empatia che si fa carne, alla responsabilità di farsi carico, non solo di assistere.
Il dolore degli altri diventa segno sulla pelle, visibile a tutti. “Croci, in rosso, sulla fronte”. Non è una metafora leggera. È un atto di testimonianza e di vergogna, come i segni lasciati da chi ha scelto di non dimenticare. La fronte è il punto più visibile, il luogo del pensiero, della coscienza, dell’identità. È un sigillo, un marchio sacro e civile insieme. Un atto di resistenza poetica contro l’indifferenza.
La grandezza di Camilleri, la forza di un messaggio senza tempo
udire il nostro grido nella bocca dell’uomo
che ci passa accanto per caso è l’ora di aprire
tutte le finestre tutte le porte abbattere i muri se occorre
per poterci guardare negli occhi trovare una parolanuova che non sia preghiera ma urlo.
È l’ora che dalla morte nasca la vita.
Camilleri spinge la poesia al culmine: non basta ascoltare il dolore degli altri. Bisogna riconoscere il proprio in quello dell’altro. L’uomo che ci passa accanto per caso, il vicino, lo sconosciuto, l’escluso, il migrante, il povero, il diverso, porta nella sua bocca anche il nostro stesso grido.
È la massima espressione dell’empatia poetica: non siamo soli nel nostro dolore, perché il dolore è sempre anche degli altri. Ogni voce può diventare la nostra, se la ascoltiamo davvero.
Non si salva nessuno rimanendo chiusi, separati, isolati. Serve una rivoluzione dello spazio umano, interno ed esterno: abbattere tutto ciò che divide, per tornare a guardarci negli occhi. È un invito alla trasparenza, alla relazione, al riconoscimento. Dove ci sono muri (reali o simbolici), c’è disumanità. Dove ci si guarda negli occhi, può rinascere la comunità.
Serve una parola che rompa il silenzio, che non supplichi ma gridi, che sia verità nuda e concreta. L’urlo è il linguaggio primario della vita: il pianto del neonato, il grido del dolore, il richiamo d’aiuto. È la lingua prima dell’umanità.
Perché tutto ciò possa avvenire è necessaria una resurrezione laica, civile, sociale, culturale. La morte, in questa poesia, non è evitabile. Ma può generare nuova vita. Non vita biologica, ma coscienza nuova, parola nuova, società nuova. È un appello di speranza, ma non ingenua: una speranza radicata nel riconoscimento del dolore e nel gesto umano di raccoglierlo.
Bisogna avere il coraggio di non chiudere più gli occhi di rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza altrui, perché ribadiamo è anche la nostra se vogliamo vivere in una società che ci doni bellezza, amore, positività.
La grandezaa di Andrea Camilleri come mostra questa poesia era già segnata, guardare ad un mondo di solidarietà cercando di mettere al centro la propria sofferenza è un atto di enoreme generosità e di apertura poetica, letteraria, civile, culturale.