Mi basta (1969) di Fadwa Tuqan, la poesia che dà voce ad un popolo senza terra

5 Ottobre 2025

In “Mi basta”, Fadwa Tuqan trasforma la ferita del popolo palestinese in un canto d’amore per la propria terra e per il diritto universale di appartenere.

Mi basta (1969) di Fadwa Tuqan, la poesia che dà voce ad un popolo senza terra

Mi basta di Fadwa Tuqan è una poesia di grande emozione e sensibilità, scritta da una donna capace di trasformare in soli dieci versi il dolore del suo popolo in una preghiera di pace e di appartenenza.
È la voce di chi desidera soltanto poter vivere sulla propria terra, respirare la propria identità, riconoscersi in un luogo che non sia negato o cancellato.

Una poesia che è attualissima perché dà voce ad una mobilitazione internazionale per la liberazione della Palestina che non è politica, ideologica, di parte, ma un atto di civiltà. Nei suoi versi, la poetessa palestinese
sembra dare voce alla maggior parte delle persone che stanno scendendo in piazza, per chiedere la fine del massacro di un popolo. Nessuno dimenticherà mai la barbarie del 7 ottobre che ha colpito Israele e tutto il mondo, ma un intero popolo non può pagare per una minoranza violenta, assassina, senza nessuna civiltà.

Questa poesia quindi è il manifesto del popolo palestinese, ma anche di tutti i popoli a cui non viene riconosciuto il diritto di esistere, di essere cultura, memoria, radice. Non serve schierarsi per comprendere la verità profonda che abita in questa poesia. Nessuna identità collettiva può essere annientata, nessuna civiltà può dirsi tale se nega a un popolo la dignità del proprio nome e della propria terra.

La vera civiltà, suggerisce Fadwa Tuqan, è quella che sa distinguere tra la colpa di pochi e il destino di molti, tra la violenza di una parte e la bellezza inalienabile di un’intera umanità. Con parole semplici e limpide, la poetessa ricorda che esistere, come persona, come popolo, come cultura, è un diritto sacro che nessuna guerra, nessuna vendetta può cancellare.

Mi basta fa parte della raccolta The Night and the Horsemen (La notte e i cavalieri, in arabo Al-Layl wal-Fursan), pubblicata per la prima volta nel 1969, due anni dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania. È una delle poesie che meglio incarnano il nuovo corso della sua scrittura, in cui l’intimità personale si intreccia alla storia collettiva della Palestina.

Leggiamo ora i versi di questa meravigliosa poesia di Fadwa Tuqan, per riscoprire in essi il significato profondo di libertà, memoria e rinascita.

Mi basta di Fadwa Tuqan

Mi basta morire sulla sua terra,
essere sepolto in lei,
sciogliermi e dissolvermi nel suo suolo,
per poi germogliare come un fiore
con cui gioca un bambino del mio paese.
Mi basta rimanere
nell’abbraccio del mio paese,
per essere in lei come una manciata di polvere,
un filo d’erba,
un fiore.

 

Enough for me, Fadwa Tuqan

Enough for me to die on her earth
be buried in her
to melt and vanish into her soil
then sprout forth as a flower
played with by a child from my country.
Enough for me to remain
in my country’s embrace
to be in her close as a handful of dust
a sprig of grass
a flower.

Una preghiera per la propria patria, quando la poesia diventa resistenza e amore

Mi basta nasce come un atto di amore e di radicamento, scritto da una donna che aveva visto la sua terra occupata, la sua città Nablus invasa, e la sua libertà trasformata in esilio. Dopo la “Guerra dei Sei Giorni” del 1967, Fadwa Tuqan comprese che la poesia non poteva più essere solo un linguaggio dell’intimità, ma doveva farsi strumento di memoria e di resistenza.

Pubblicata nel 1969 la poesia rappresenta la svolta della sua scrittura. La voce individuale si fonde con quella collettiva del popolo palestinese, e la parola poetica diventa un ponte tra dolore e speranza, tra identità personale e destino comune.

Nei suoi versi, la morte non è un confine ma un ritorno. Il suolo che ospita la morte, si trasforma in rinascita attraverso la memoria. Fadwa Tuqan non implora la salvezza, ma il diritto di appartenere, di essere sepolta nella propria terra, di dissolversi in essa e rinascere come fiore, come polvere, come filo d’erba.

È un linguaggio semplice, ma di una potenza spirituale straordinaria. In pochi gesti, la poetessa trasforma l’atto di morire in un gesto di continuità vitale, in un dialogo d’amore con la terra che le ha dato identità, storia e nome e che le permette inevitabilmente di diventare memoria per le future generazioni.

Mi basta non è un grido politico, ma una preghiera metafisica, una poesia che parla della Palestina ma che, nella sua essenza, riguarda ogni essere umano privato del diritto di appartenere a un luogo. È la rivendicazione più semplice e più universale: quella di poter tornare alla propria terra, non per dominarla, ma per confondersi con essa, fino a diventare parte del suo respiro.

Il diritto di tutti i popoli ad avere patria, cultura e memoria

La poesia dedicata alla Palestina e al suo popolo si apre con una dichiarazione semplice e assoluta:

Mi basta morire sulla mia terra
essere sepolta in essa
sciogliermi e svanire nel suo suolo
e poi germogliare come un fiore
colto con tenerezza da un bimbo del mio paese.

Dietro queste parole apparentemente miti si nasconde un grido universale: il diritto di appartenere al luogo in cui si è nati. Per il popolo palestinese  e per ogni popolo costretto all’esilio  morire sulla propria terra non è una certezza, ma un sogno, un atto di resistenza esistenziale.

Il verbo “sciogliermi” introduce un’immagine di fusione totale con la terra. Non c’è paura nella dissoluzione, ma una sorta di pace cosmica, il corpo diventa humus, linfa, sostanza viva che nutre il futuro di un popolo.
In questa visione, la morte non è fine, ma ritorno al principio — come nella ciclicità naturale delle stagioni o nel simbolismo mistico sufi, dove l’annullamento del sé è l’unico modo per raggiungere l’eternità.

L’immagine del fiore che germoglia e viene colto da un bambino del paese è uno dei punti più alti del testo. Il bambino rappresenta la continuità e la purezza del futuro, il volto innocente di una nuova generazione che gioca con ciò che nasce dalla terra della propria storia. In questo gesto,  un fiore raccolto senza saperlo sopra le ceneri della poetessa,  Fadwa Tuqan trasfigura la morte in atto d’amore e di speranza.
Il fiore diventa la forma più tenera di eternità: un contatto tra passato e futuro, tra memoria e vita.

Nella seconda parte, la poesia si fa ancora più intima, quasi sussurrata.

Mi basta rimanere
nell’abbraccio del mio paese
per stargli vicino, stretta,
come una manciata di polvere
ramoscello di prato
un fiore.

Il verbo “rimanere” introduce una dimensione nuova, non basta essere sepolta, bisogna restare. Restare significa non essere dimenticata, non essere sradicata. È il desiderio di continuare a vivere come presenza invisibile nella terra amata, come memoria da condividere.

L’“abbraccio del paese” è una delle metafore più dolci e potenti di tutta la poesia palestinese. È la fusione tra individuo e collettività, tra corpo e suolo, tra amore e memoria. Fadwa Tuqan non vuole essere statua o martire, vuole essere polvere, prato, fiore, ossia la parte più umile e allo stesso più intimo della terra. Vita che rinasce e che risplende.
In questa scelta di immagini elementari, la polvere, l’erba, il fiore, c’è la forza del suo messaggio. La grandezza nasce dall’umiltà, la libertà dalla radice, la pace dalla capacità di appartenere.

Nella poesia non c’è un nemico d’abbattere, non c’è lotta dell’altro, non invoca la distruzione di chi opprime, ma vive la resistenza civile di chi rivendica un letto di terra per diventare memoria. È una richiesta minima ma infinita, poter esistere nella propria identità, senza dominio, senza esilio, senza dover chiedere permesso per essere.

Il diritto di appartenere: quando la poesia diventa coscienza dell’umanità

La potenza di Mi basta risiede nella sua brevità luminosa. Dieci versi, nessuna retorica, nessun grido, ma una voce limpida che si offre come testamento universale. Fadwa Tuqan riesce a trasformare la sofferenza in tenerezza poetica, la perdita in preghiera, la nostalgia in visione cosmica.

Nel silenzio di questi versi vive una lezione eterna. L’appartenenza non è possesso, ma fusione d’amore con la propria origine. La poesia diventa così il luogo in cui la patria smette di essere confine e diventa corpo e anima insieme.

È la voce di Fadwa Tuqan, pur nata nel cuore della Palestina, che parla al mondo intero. La poesia rivolge e dedica i suoi versi a chi ha perso una casa, una lingua, una radice, e ancora sogna di poter dire, anche solo una volta, mi basta morire sulla mia terra.

La poesia di Fadwa Tuqan dona una verità che travalica ogni confine politico o geografico. L’essere umano ha bisogno di appartenere non come possesso, ma come radice, come legame vitale con un luogo, una lingua, una memoria condivisa.

In Mi basta, la poetessa non chiede vittoria, ma presenza. Non invoca il trionfo, ma la possibilità di essere parte della propria terra anche nella morte, un gesto che riporta la politica alla sua dimensione più autentica: quella del senso e della dignità.

Il bisogno delle proprie radici

Nelle società globalizzate e liquide descritte da Zygmunt Bauman, dove tutto si muove e si dissolve, il bisogno di radici diventa una delle urgenze più profonde del nostro tempo. Fadwa Tuqan insegna che la radice non è chiusura, ma dialogo tra ciò che è e ciò che è stato, tra memoria e futuro.

Appartenere non significa escludere, ma riconoscere che ogni identità nasce in relazione a un’altra. La sua poesia è la voce di chi resiste non con la rabbia, ma con la cura. Non con l’odio, ma con la speranza di tornare a fiorire. C’è sempre dignità nei versi dell’autrice palestinese.

In questa prospettiva, Mi basta diventa un testo universale, una riflessione sulla condizione umana contemporanea, segnata da esili interiori e da spaesamenti globali. Ogni individuo, oggi, conosce in qualche forma l’esperienza dell’esilio, geografico, culturale, emotivo.
Fadwa Tuqan ci invita a cercare un ritorno, non necessariamente a una terra fisica, ma a un principio di senso, a un luogo dell’anima dove poter dire: “mi basta essere parte di ciò che amo”.

Il messaggio della poetessa è quindi più attuale che mai: nessuna civiltà può dirsi tale se non riconosce il diritto all’esistenza dell’altro, se non difende la sacralità della terra, della vita e della memoria. Il fiore che un bambino coglie nei versi di Fadwa Tuqan non è solo simbolo di rinascita palestinese, ma l’immagine di un’umanità capace di tenerezza anche dopo la distruzione, di un mondo che può ancora scegliere la vita, la pace e la bellezza come atti di resistenza.

Chi è Fadwa Tuqan

Fadwa Tuqan (Nablus, 1 marzo 1917 – Nablus, 12 dicembre 2003) è stata una delle più importanti e celebrate poetesse del mondo arabo, considerata una vera e propria icona della letteratura palestinese, tanto da meritarsi l’appellativo di “Grande Dame della poesia palestinese”.

La sua vita e la sua opera sono indissolubilmente legate alla storia del suo popolo e alla sua lotta personale per la libertà, sia come donna che come cittadina di una terra occupata.

Ecco chi era Fadwa Tuqan.

1. La Prigione Familiare e l’Autoformazione
Nata a Nablus in una delle famiglie più importanti e conservatrici, la sua infanzia e adolescenza furono segnate da un ambiente patriarcale estremamente rigido. A causa di una malattia e delle restrizioni familiari, fu costretta ad abbandonare la scuola in giovane età, vivendo per anni in una condizione di isolamento quasi totale. Fu suo fratello maggiore, Ibrahim Tuqan, anch’egli un celebre poeta, a diventare il suo mentore. La introdusse alla poesia, le fornì i libri e la incoraggiò a scrivere, aiutandola a trasformare la sua prigione domestica in uno spazio di autoformazione e di espressione poetica.

2. La Prima Fase Poetica: La Voce dell’Io
Le sue prime raccolte poetiche, a partire dagli anni ’50, sono caratterizzate da un tono prevalentemente intimo, lirico e romantico. In questi versi, Fadwa esplora i temi della solitudine, dell’amore, della frustrazione e del desiderio di emancipazione femminile. La sua era una voce profondamente personale che dava espressione alla sofferenza e alle aspirazioni di una donna che lottava per trovare il proprio spazio nel mondo.

3. La Svolta del 1967: La Poesia Diventa “Noi”
La Guerra dei Sei Giorni (1967) e la conseguente occupazione israeliana della sua amata Nablus segnarono una svolta drammatica e irreversibile nella sua vita e nella sua arte. Come lei stessa raccontò nella sua autobiografia, il dramma collettivo del suo popolo divenne il suo dramma personale. La sua poesia si politicizzò, e la voce dell’ “io” si trasformò nella voce del “noi”. La terra, la perdita, la resistenza e la resilienza divennero i temi centrali della sua opera. Poesie come “Mi basta” (Yakfīnī) sono l’emblema di questa nuova fase, in cui il legame con la patria diventa un atto di resistenza spirituale e identitaria.

4. L’Autobiografia: “Viaggio Montagnoso, Viaggio Difficile”
Nel 1985 pubblicò la sua autobiografia, A Mountainous Journey: An Autobiography. (Riḥla ṣaʿba, riḥla jabaliyya), un testo fondamentale in cui racconta con onestà e coraggio le due grandi lotte della sua vita. Quella contro le catene della società patriarcale e quella contro l’occupazione militare. Il libro è una testimonianza preziosa del suo percorso umano e artistico.

5. Eredità e Riconoscimenti
Fadwa Tuqan è oggi considerata una delle pioniere della scrittura femminile nel mondo arabo e una voce imprescindibile della letteratura palestinese. La sua capacità di fondere l’esperienza personale con la tragedia collettiva, usando un linguaggio potente ma sempre lirico e umano, l’ha resa un simbolo di resilienza e di amore per la propria cultura. Ha ricevuto numerosi premi letterari internazionali e la sua opera è tradotta in moltissime lingue.

In sintesi, Fadwa Tuqan è stata una poetessa che ha trasformato la sua doppia prigionia, prima quella domestica delle donne palestinesi  e poi quella politica del suo popolo, in una potentissima forma di libertà attraverso la parola, diventando una voce universale di chi lotta per la propria dignità e la propria terra.

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