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Lettera alla madre (1946) di Salvatore Quasimodo, poesia da donare alla mamma lontana

Scopri il significato della poesia "Lettera alla madre" poesia di Salvatore Quasimodo sul legame madre-figlio, sulla lontananza e la memoria.

Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo è una poesia che possiamo considerare una preghiera che il figlio rivolge alla madre lontana. È il canto struggente e malinconico di tutti quei figli che sono stati costretti ad abbandonare la loro “terra madre” per cambiare la loro vita, per fare fortuna, per realizzare i sogni, per poter avere la possibilità di una vita migliore.

Una lettera che è comune alle emozioni di milioni di umani costretti a rinunciare agli affetti più profondi, quelli intimi, familiari, che solo la mamma riesce a donare, la figura che nel quasi 100% dei casi (la totalità nella vita è impossibile) non tradirà mai.

Lettera alla madre è inclusa nella settima raccolta di poesie di Salvatore Quasimodo,  La vita non è sogno, pubblicata per la prima volta nel 1949.

In occasione della Festa della Mamma, leggiamo la bella poesia di Salvatore Quasimodo per apprezzare  il poetico rapporto madre e figli.

Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo

«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»

Salvatore Quasimodo e il rapporto con la madre

Lettera alla madre è una poesia di Salvatore Quasimodo di grandissimo significato che diventa un manifesto all’amore materno, un inno alla memoria e alla perdita delle origini, il ricordo e pensiero malinconico di tutti coloro che costretti alla lontananza non hanno la possibilità di poter vivere gli affetti più intimi e profondi.

La “Mater” di Quasimodo è una figura quasi divina, è un simbolo, è il punto di riferimento, il faro per tutti i figli, nessuno escluso. La distanza acuisce il senso di mancanza di un legame affettivo che per sua stessa natura non può avere eguali. La “Mater” è la vita, è il dono della creazione, è il rifugio, è la cura, è l’amore. Non c’è qualcosa di più grande e importante di questo legame, nel bene e nel male, le emozioni che genera e contiene sono infinite.

Lettera alla madre è uno dei componimenti più toccanti della poesia italiana del Novecento, scritto nel 1946, la madre Clotilde Ragusa è malata, morirà nel 1950, l’anno dopo dell’uscita della raccolta La vita non è un sogno. È una lirica che unisce l’intimità epistolare alla potenza della memoria e del rimpianto. In questa poesia, l’autore ripercorre con voce emozionata il legame profondo e irrisolto con la figura materna, rievocando l’infanzia, la distanza, l’esilio interiore, la guerra, la morte.

La preghiera di Quasimodo alla mamma lontana

La poesia inizia con Quasimodo che parla dei luoghi dove ora vive. Abita in Lombardia, dove si trova bene, ma non è felice per le condizioni di salute della mamma e per quella nostalgia interiore che tutti coloro che hanno lasciato la Sicilia si portano sempre nel cuore. E quindi scrive alla madre.

“Mater dolcissima, ora scendono le nebbie…”, attraverso un richiamo al latino e alla letteratura classica, il poeta intraprende un dialogo intimo con la figura che l’ha creato, con la persona a cui può manifestare senza nessun filtro il proprio essere.

Quasimodo quando scrive la poesia si trova a Milano, “le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe”, i riferimenti sono mmolto chiari ed evidenti. Ma attraverso il paesaggio invernale del nord Italia esprime alla mamma la sua inquietudine, il suo malessere nei rapporti che sta vivendo. Non è triste dice il poeta, ma allo stesso tempo “non è in pace”. In pochi versi, Quasimodo esprime le sensazioni che genera la città in molti che la vivono, una Milano che accoglie, conquista, ma allo stesso tempo imprigiona e rende perennemente inquieti.

Lo stato di salute e l’età della mamma è rappresentato simbolicamente una nebbia malinconica dell paesaggio del Nord Italia, freddo, invernale. Quasimodo, lontano dalla Sicilia natia, si trova in un luogo che non lo rassicura, ma nemmeno lo rattrista più. Non è in pace, ma ha accettato la sua inquietudine.

“Molti mi devono lacrime da uomo a uomo”. È un verso di grande impatto emotivo, l’uomo poeta ha conosciuto il dolore e la solitudine, e rivendica il rispetto che gli è dovuto. Non cerca compassione né perdono, ma riconoscimento. Il tono qui si fa grave, quasi epico, da uomo ferito ma dignitoso. Un uomo che iniza a farsi largo con le sue opere e finalmente pretende il dovuto rispetto.

So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani.

Il poeta mostra preoccupazione per al salute della madre, ma offre una delle definizioni più belle della figura materna della letteratura italiana. La madre è povera, ovvero vive in condizioni economiche modeste, ricordiamoci che il padre di Quasimodo era un ferroviere, ma ha una ricchezza morale e affettiva profonda. Il concetto di dignità è ciò che esprime al madre per il poeta. Ama in modo “giusto”, cioè senza eccessi, con misura, come solo chi ha sofferto può fare. Quante sono le madri simili a quella di Salvatore Quasimodo? Tantissime.

– Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –

L’autore dà voce alla madre immaginandone la reazione, colma di preoccupazione e malinconia. Rievoca la sua fuga giovanile per inseguire la poesia, un gesto impulsivo e coraggioso. La madre lo sapeva fragile, “pronto di cuore”, destinato a una fine difficile. Il figlio è sempre un bambino agli occhi della madre, anche quando diventa poeta.

In questi versi Salvatore Quasimodo dà voce a tutti coloro che per realizzare il proprio sogno hanno affrontato il viaggio, la sofferenza, i sacrifici, la povertà. Il poeta diventa il Profeta dei sognatori coraggiosi, di tutti coloro che non hanno avuto paura di lasciare tutto pre concretizzare i sogni.

«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.

La memoria si fa vivida: un ritorno lirico alla Sicilia, ai paesaggi della sua infanzia, al fiume Imera, agli odori e ai suoni dell’isola. È un mondo lontano, mitico, che si oppone al presente grigio e spersonalizzato del Nord industriale. E il pensiero e alla mite ironia della madre, che crea un legame indissolubile con il figlio. La madre ha donato al figlio attraverso il semplice sorriso le cose più belle, più grandi.

“Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.” Salvatore Quasimodo riconosce nella madre la sua forza, la sua salvezza. Il sorriso materno, ironico e mite, è stato uno scudo contro la durezza della vita. Un’eredità spirituale che lo ha protetto.

Il poeta chiude la poesia intonando una vera preghiera alla “morte”.

Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.

Questi versi sono tra i più commoventi della poesia. L’orologio diventa simbolo dell’infanzia, del tempo passato insieme, del focolare domestico. La morte è invocata con rispetto: non deve distruggere ciò che resta, ciò che è sacro nei ricordi. Una supplica profonda: lascia in pace i fragili, i genitori, coloro che attendono senza sapere cosa. È un invito a preservare la dignità della vecchiaia, a lasciare intatto il cuore di chi ha amato.

Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»

Il congedo è definitivo. Non è solo un saluto, ma un’ultima carezza fatta parola. Si chiude con la stessa tenerezza iniziale, in un cerchio di affetto e di dolore. La consapevolezza di un figlio che non vedrà più la madre, perché la morte la porterà via.

Il saluto disarmante di chi sa per certo che ciò che di più caro e intimo andrà via per sempre, lasciandolo nella sua solitudine esistenziale.

Auguri Mamma!

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