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Léopold Sédar Senghor e l’amore per l’Africa nella poesia “A New York”

Il 25 maggio si festeggia la Giornata dell’Africa. Per l’occasione, condividiamo “A New York”, una poesia di Léopold Sédar Senghor.

Il 25 maggio 1963 veniva fondata ad Addis Abeba l’Organizzazione dell’unità africana, conosciuta come Unione Africana dal 2002. Per questa ragione, ogni anno, il 25 maggio si festeggia il continente africano nella giornata ad esso dedicata. In occasione della Giornata dell’Africa, condividiamo con voi “A New York”, scritta da Léopold Sédar Senghor, grande poeta africano, primo Presidente della Repubblica Senegalese (1960-1980) e membro dell’Académie Française, nella cui poesia traspare l’amore per l’Africa e per i suoi valori.

A New York di Léopold Sédar Senghor

New York! Mi ha confuso, dapprima, la tua bellezza, queste grandi
ragazze d’oro dalle lunghe gambe.
Così timido, dapprima, di fronte, ai tuoi occhi di metallo blu, il tuo
sorriso di brina.
Così timido. E l’angoscia nel fondo delle vie dei grattacieli
Che leva ai suoi occhi di civetta fra l’eclisse del sole.
Solforosa la tua luce e livide le antenne, le cui punte folgorano il cielo
I grattacieli che sfidano i cicloni sui loro muscoli d’acciaio e la pelle
patinata di pietre.
Ma quindici giorni sui marciapiedi calvi di Manhattan
-E alla fine della terza settimana vi assale la febbre con un balzo di
giaguaro.
Quindici giorni senza pozzo né pascolo, tutti gli uccelli dell’aria
Che cadono morti all’improvviso sotto le alte ceneri delle terrazze.
Non un riso di bimbo in fiore, la sua mano nella mia fresca mano
Non un seno materno, solo gambe di nylon. Gambe e seni senza
sudore né odore.
Non una parola tenera nell’assenza di labbra, solo cuori artificiali
pagati con moneta solida
E non un libro in cui leggere la saggezza. La tavolozza del pittore
fiorisce di cristalli di corallo.
Notti d’insonnia e notti di Manhattan! Così agitate di fuochi fatui,
mentre il claxon urlano ore vuote
E le acque scure trasportano amori igienici, come i fiumi in piena
cadaveri di bambini.
Ecco il tempo dei segni e dei conti
New York! Ecco il tempo della Manna e dell’issopo.
Basta ascoltare le trombe di Dio, il tuo cuore battere al ritmo del
sangue il tuo sangue.
Ho visto in Harlem fremente di rumori di colori solenni e di odori
folgoranti
Questa è l’ora del tè in casa del rappresentante di prodotti farmaceutici
Ho visto prepararsi la festa della Notte alla fuga del giorno.
Proclamo la notte più veritiera del giorno.
Questa è l’ora in cui nelle vie, Dio fa germogliare la vita di prima
della memoria.
Tutti gli elementi anfibi raggianti come soli.
Harlem Harlem! Ecco che ho visto Harlem Harlem! Una brezza verde
di grano sorgere dai selciati solcati dai piedi nudi di danzatori Dan
In groppa onde di sera e seni come punte di lancia, balletti di ninfe e
maschere favolose
Ai piedi dei cavalli di polizia, i manghi dell’amore rotolare dalle case basse.
E ho visto, lungo i marciapiedi, ruscelli di rum bianco ruscelli di latte
nero nella nebbia azzurra dei sigari.
Ho visto il cielo nevicare alla sera fiori di cotone e ali di serafini e
pennacchi di stregoni.
Ascolta New York! Ascolta la tua voce maschia di rame la tua voce vibrante
di oboe, l’angoscia ostruita delle tue lacrime piombare in
grossi grumi di sangue
Ascolta battere in lontananza il tuo cuore notturno, ritmo e sangue del
tam-tam,tam-tam sangue e tam-tam.
New York! Dico New York, lascia affluire il sangue nero nel tuo sangue
Che lubrifichi le tue articolazioni d’acciaio, come olio di vita
Che dia ai tuoi ponti la curva delle groppe e l’elasticità delle liane.
Ecco tornare i tempi antichissimi, l’unità ritrovata la riconciliazione
del leone del toro e dell’albero
L’idea legata all’atto, l’orecchio al cuore, il segno al senso.
Ecco i tuoi fiumi sonori di caimani muschiati e di Lamantini dagli
occhi di miraggio. E nessun bisogno di inventare le sirene.
Ma basta aprire gli occhi all’arcobaleno d’aprile,
E le orecchie, soprattutto le orecchie, a Dio che con un riso di
sassofono creò il cielo e la terra in sei giorni.
E il settimo giorno, dormi del grande sogno negro.

L’Africa in absentia

Questa bellissima poesia rivela l’amore di Léopold Sédar Senghor per l’Africa in modo originale: né il titolo, né il testo sono esplicitamente riferiti al paese d’origine dell’autore, ma i versi ne sembrano perennemente intrisi, pervasi.

Leggiamo il componimento e ci troviamo spiazzati: siamo a New York, la città simbolo della velocità e del progresso occidentali. Il fascino della metropoli è immenso, e il poeta si trova a fantasticare, ad ammirare dal basso tutte le apparenti meraviglie di un luogo lontanissimo dal suo paese d’origine. Il poeta rivolge la parola alla città statunitense personificandola, trattandola come se fosse una splendida donna da amare.

All’improvviso, l’atmosfera della poesia cambia del tutto, perché, dopo qualche settimana vissuta a New York, è la nostalgia ad assalire l’autore. E così, a poco a poco, compaiono elementi riconducibili al continente africano, a partire da quel “giaguaro” che è metafora della velocità con cui la nostalgia assale il poeta. Léopold Sédar Senghor riesce a restituire un’immagine vivida dell’Africa anche in assenza dell’Africa stessa.

Forse è così, come nella poesia di Léopold Sédar Senghor, che le cose diventano più belle, più apprezzate e amate, più vivaci: nei nostri ricordi nostalgici, tutto prende vita più facilmente. In questo modo, i colori dell’Africa, gli uccelli, i sorrisi sfavillanti dei bambini, le acque limpide scroscianti, i suoni ritmati diventano protagonisti di una poesia che si intitola “A New York”, e parla di una città piena di sogni calpestati, di gente frenetica, abituata a vivere nell’indifferenza quotidiana, nel grigio dei marciapiedi e delle strade.

 

 

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