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Giacomo Leopardi, la sua influenza nella poesia del Novecento

Scopriamo grazie a Dario Pisano in che modo Giacomo Leopardi abbia influito sulla produzione artistica di diversi poeti che sono venuti dopo di lui

L’influenza della poesia di Giacomo Leopardi. Esordisco con una banale constatazione: gli scrittori leggono gli scrittori del passato;  li studiano e se ne innamorano; li fanno rinascere a vita nova rioffrendoli al futuro.

Per introdurre Giacomo Leopardi, il viatico migliore ce lo offre Dino Buzzati:

«Che atleta! Non mi venite a dire che Leopardi era fisicamente debole e inefficiente. Le testimonianze del tempo, le sue stesse dichiarazioni sono, lo so, tutte concordi sull’argomento. Il conte Giacomo era ancora peggio di quello che si dice una mezza cartuccia, era un cerotto, una piaga, un ospedale ambulante, che teneva l’anima coi denti.

Ebbene, tutto questo è inverosimile, i fatti lo smentiscono nel modo più clamoroso. Se fosse stato veramente quella Madonna dei sette dolori che si dice, mai e poi mai avrebbe scritto quelle poesie che ha scritto. La poesia, quella autentica, è prima di tutto una manifestazione di vigore fisico. Il genio sta dietro, naturalmente, ma senza una potente riserva di energie corporali, il genio non combinerebbe da solo un fico secco. Insomma, avrà sofferto tutti gli acciacchi possibili e immaginabili, Leopardi, ma non c’è dubbio che quando compose le sue poesie più belle, doveva in cuor suo sentirsi, pur se disperatissimo, una forza scatenata della natura.»

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Giacomo Leopardi forza della natura

Alcuni aneddoti intorno alla giovinezza del poeta di Recanati confermano questo ritratto di Buzzati. Giacomo Leopardi era davvero una « forza scatenata della natura».

Ecco una testimonianza autobiografica:

« Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei racconti, e del meraviglioso che si percepisce coll’udito, o colla lettura (giacché seppi leggere, ed amai di leggere assai presto) ».

Il suo gioco preferito si svolgeva nel giardino: consisteva nel prendere un carrettino che serviva per trasportare arance e limoni e trasformarlo in un carro da guerra. Si chiamava “gioco del trionfo”: lui sopra, incoronato dall’alloro, era il condottiero vittorioso con intorno schiavi pronti a omaggiarlo, a umiliarsi al suo cospetto. Scrive nello Zibaldone:

« Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno dei miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto». Proprio il fratello Carlo scriverà che « Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che noi fratelli facevamo nel giardino, egli si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava  ».

Quando Giovanni Pascoli – attento studioso del poeta di Recanati – elaborerà la poetica del fanciullino, avrà probabilmente in mente questo enunciato leopardiano: «I bambini vedono il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.»

La formazione adolescenziale

Allo stesso modo del poeta fraterno di tanti secoli prima ( Francesco Petrarca ) anche il giovane Giacomo Leopardi non riusciva mai a saziarsi di libri (« libris satiari nequeo ».)

Il padre, Monaldo, era riuscito a mettergli a disposizione una biblioteca immensa, una mescolanza impressionante di « libri utili e inutili: grammatiche, dizionari, glosse, commenti, orazioni, dissertazioni, trattati di erudizione greca, ebraica, latina, sacra e profana, cose originali e imitazioni, sommi e mediocri, tutto commisti.».

È qui che Giacomo trascorre l’adolescenza, immerso nei suoi studi matti e disperatissimi, visitato ogni tanto dal pensiero di come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia.

Pier Paolo Pasolini ci ha insegnato che « la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci ». Le lettere giovanili di Giacomo Leopardi sono meravigliose: documentano la storia di un ragazzo il quale ( prendo in prestito  una frase da Gadda ) interroga con il fiore tremante della persona il caldo alito del futuro.

« Farò mai niente di grande? Neanche adesso che mi vo sbattendo in questa gabbia come un orso? […] Certo che non voglio vivere tra la turba; la mediocrità mi fa una paura mortale; ma io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno coll’ingegno e collo studio: impresa ardua e forse vanissima per me, ma agli uomini bisogna non disanimarsi né disperare di loro stessi […] »

«Io ho grandissimo, forse smisurato e insolente desiderio di gloria […] Che cos’è in Recanati di bello? Che l’uomo si curi di vedere o di imparare? Niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si possono frenare? Che siano ingiusti, soverchi, sterminati? Che sia pazzia il contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? [..] A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta, e senza studio s’accresce. […] Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza.»

La vita e l’attesa

Il tema della vita che si dissolve nell’attesa di sé stessa è tra i più caratteristici della poesia leopardiana ( basta che pensiate al Sabato del villaggio ). Nel panorama letterario del XX secolo ricordo volentieri un romanzo che è una specie di Sabato del villaggio ambientato in un’isola ( l’isola è Procida ) ossia l’Isola di Arturo di Elsa Morante.

Il protagonista è un ragazzo che incarna la vita  impaziente di incontrare sé stessa: 

« Davvero il principe Tristano delirava quando diceva che la notte è più bella del giorno. Io da quando sono nato, non ho aspettato che il giorno pieno, la perfezione della vita. Ho sempre saputo che l’isola, e quella mia primitiva felicità, anche quelle sere là con lei, erano solo la notte della vita. In fondo l’ ho sempre saputo. E ora lo so più che mai: e aspetto sempre che il mio giorno arrivi, simile a un fratello meraviglioso con cui ci si ricorda, abbracciati, la lunga notte ». 

Possiamo commentare il passo morantiano con una poesia di Sandro Penna, finissimo riorchestratore di armoniche leopardiane:                                                                

Se la vita sapesse il mio amore

me ne andrei questa sera lontano,

me ne andrei dove il vento mi baci,

dove il fiume mi parli sommesso.

Ma chi sa se la vita somiglia

al fanciullo che corre lontano.

Il lessico della memoria

In Giacomo Leopardi il lessico della memoria è articolatissimo ( come tutti i poeti, anch’ egli amministra sapientemente la ricchezza sinonimica della lingua. ) Soprattutto, nella sua opera incomincia ad affacciarsi un tipo di memoria che avrà enorme fortuna nella letteratura del Novecento, ossia la memoria involontaria. Potremmo quasi dire che Leopardi scopre le intermittenze del cuore, la percezione moderna della memoria. La memoria involontaria è quel ricordo risvegliato da una sollecitazione sensoriale ( esempio emblematico: L’Aquilone di Giovanni Pascoli ). Il capolavoro della letteratura novecentesca, la Recherche di Proust, è tutto costruito su queste epifanie involontarie del ricordo.

Nella pagina più celebre di Proust, il protagonista ritrova il suo passato dentro una tazza di tè:

« Quando niente sussiste di un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, , soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, , senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo. ».

Proust è un S. Agostino novecentesco nella misura in cui rioffre una riflessione sul tempo e sulla memoria che è stato proprio S. Agostino ad inaugurare – per la prima volta nella civiltà europea, nell’ambito dei libri X e XI delle Confessioni ( libri che tutto il Novecento ristudia e rimedita. Penso a Proust, Bergson, Husserl ). S. Agostino parla dell’aula ingens memoriae ( la sala immensa della memoria che è dentro di noi, nel nostro homo interior ). Possiamo così rintracciare una linea S. Agostino – Petrarca – Leopardi – Proust – Ungaretti, sancita proprio da quest’ultimo. Giuseppe Ungaretti, in una lettera inviata il 28 dicembre 1950 al suo amico Piero Bigongiari, scrive: « La storia della poesia italiana è semplice: il suo segreto è sempre in Agostino: sia per via diretta, come in Petrarca, sia per via indiretta come – attraverso Pascal – in Leopardi ».

Il Leopardismo di Ungaretti

Dov’è il leopardismo di Ungaretti? Nella sua prima raccolta poetica, Allegria di Naufragi, Ungaretti fa qualcosa che non si era mai visto: smonta la macchina della prosodia italiana e – in una specie di day after linguistico – risillaba tutto l’essere. Pensate ai versicoli incollonati uno dopo l’altro. Il poeta mira a prosciugare la parola, a denudarla, a spogliarla delle risonanze effimere. Questa è una tecnica che Giacomo Leopardi aveva inaugurato e collaudato nelle sue ultime poesie, dove possiamo documentare il tentativo di isolare la parola all’interno del verso attraverso un uso calibratissimo dell’interpunzione. Il vocabolo in questo modo si staglia all’interno del componimento nella sua assolutezza.

Un esempio emblematico nella poesia A sé stesso, dove registriamo una sorta di ibernazione dell’io lirico.

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.

Leopardi nel primo dopoguerra ( Cardarelli e Saba )

Nella letteratura del Novecento, i periodi nei quali l’interesse verso Giacomo Leopardi conosce i picchi maggiori sono gli anni del  primo e del secondo dopoguerra. Nel primo dopoguerra esce una rivista La Ronda, fondata da Vincenzo Cardarelli, un poeta che vuole liquidare le avanguardie e ritornare all’ordine. Il titolo fa riferimento alla ronda militare, un’attività ispettiva di guardia. Ritornare all’ordine voleva dire ritornare a Leopardi, alla sua inconfondibile intonazione classicheggiante.

Sono gli anni venti del Novecento e in questo periodo esce il Canzoniere di Saba, un poeta triestino che si fa erede della grande tradizione del petrarchismo leopardiano. Il tema della creatura che patisce, della sofferenza di tutto il creato, splendidamente orchestrato dal poeta di Recanati ( basti pensare a quella pagina dello Zibaldone dedicata alla descrizione di un giardino ), lo ritroviamo nelle sue poesie più belle come La Capra. Nel belato sofferente di una capra si epifanizza l’agonia del creato ( Virglio parlava della lacrimae rerum, le lacrime delle cose ).

Leopardi impegnato?

Nel secondo dopoguerra in Europa si affaccia la poetica dell’engagement. L’intellettuale, lo scrittore doveva essere impegnato.

Non bastava interpretare il mondo, bisognava provare a trasformarlo. Per fare questo era necessario attivare all’interno delle opere d’arte delle valenze di ordine sociale. In questo clima sale l’interesse per l’ultimo Leopardi, sopratutto per quel testamento morale che è LA GINESTRA.

L’occasione di questa poesia è una passeggiata sulle pendici del Vesuvio. Giacomo Leopardi apre allo sguardo una waste land, fatta di paesaggi brulli e inameni che tanto piaceranno a Eugenio Montale ( Meriggiare pallido e assorto…)

In estrema sintesi, il messaggio della lirica è questo: l’uomo non possiede nessun privilegio creaturale. Cade una mela e distrugge un popolo di formiche; erutta il Vesuvio e distrugge Pompei ed Ercolano: gli uomini contano meno delle formiche. Dante Alighieri aveva descritto il nostro bel pianeta come l’aiuola che ci fa tanto feroci. Siamo tutti imbarcati su questa meravigliosa nave azzurra sospesa nello spazio; una favilla nell’immenso incendio galattico. Invece di infelicitarci reciprocamente. dovremmo fare fronte comune contro colei che « veramente è rea, che dei mortali madre è di parto e di voler matrigna », ossia la Natura. Nella Ginestra il poeta vede nel fiore del deserto un simbolo del coraggio di fronte al comune destino di Morte; a differenza dell’uomo, la ginestra accetta con umiltà il suo tragico destino.

Tutte le vite hanno la medesima fine.

In mano di Leopardi la poesia è una ginestra che manda un profumo che consola i deserti; in mano di Montale diventerà un girasole che mostra tutto il tempo agli azzurri specchianti del cielo / l’ansietà del suoi volto giallino. Un grande poeta contemporaneo, Giovanni Campus, nella sua Ode al fico d’India ( Mediterranee, Edes, 2003 ) ha in qualche modo riscritto la Ginestra, eleggendo a bandiera di resistenza contro il male di vivere  un umile fico d’India:

tu sei gesto d’amore

e di sfida  all’immenso

polveroso silenzio, sei un applauso

chiassoso, ardente, un grazie

ruvido eppure lieto

alla bellezza intrisa d’amarezza

che circonda le cose, una foresta

di mani insorte a salutare, un coro

disordinato, un’onda

tu sei di battagliera

aspra vitalità: tu, fico d’India

sei come una bandiera

di resistenza, una protesta fiera

contro l’aridità dell’esistenza.

Il Naufragio nel mare del tempo

Prima di andare a dormire, l’angelo della malinconia visitava Giacomo Leopardi, al quale la quiete altissima della notte insegnava l’inanità, la vanità di ogni grande impresa compiuta dagli uomini.

« Or dov’è il suono / di quei popoli antichi? / Or dov’è il grido / dei nostri avi famosi? e il grande impero / di quella Roma, e l’armi e il fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano? / Tutto è pace e silenzio / e tutto posa / il mondo, e più di lor non si ragiona. ».

Questo rampollare di interrogative riorchestra il vecchio adagio biblico dell’Ubi sunt? I grandi uomini, i grandi imperi, i grandi fatti della storia, tutto ciò che abbia avuto una parvenza di grandiosità è un mero solco nel mare del tempo.

 Thomas S. Eliot si domanda: Where is the life we have lost in living ( Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? )

Facciamo rispondere a Giuseppe Ungaretti, che recupera e rilancia verso il futuro il vocabolario poetico leopardiano:

Nel mistero delle proprie onde

ogni terrena voce fa naufragio

Dario Pisano

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