Cosa resterà di noi? In un mondo dilaniato dalle guerre, in una natura che abbiamo ferito irrimediabilmente con cui ora siamo costretti a fare i conti, in un assetto sociale che non cessa di deteriorarsi… cosa ci resta?
Salvatore Quasimodo, importante poeta novecentesco esponente dell’Ermetismo, ci risponde dal secolo scorso con una poesia senza tempo, intitolata “Forse il cuore”, che ha la capacità di donarci un barlume di speranza, nonostante tutto… Scopriamola insieme.
“Forse il cuore” di Salvatore Quasimodo
Sprofonderà l’odore acre dei tigli
Nella notte di pioggia. Sarà vano
Il tempo della gioia, la sua furia,
quel suo morso di fulmine che schianta.Rimane appena aperta l’indolenza,
il ricordo di un gesto, d’una sillaba,
ma come d’un volo lento d’uccelli
fra vapori di nebbia. E ancora attendi,non so che cosa, mia sperduta; forse
un’ora che decida, che richiami
il principio o la fine: uguale sorte,
ormai. Qui nero il fumo degli incendi
secca ancora la gola. Se lo puoi,dimentica quel sapore di zolfo
e la paura. Le parole ci stancano,
risalgono da un’acqua lapidata;
forse il cuore ci resta, forse il cuore.
Il significato di questa poesia
Dove leggere “Forse il cuore” di Salvatore Quasimodo
“Forse il cuore” è tratta da “Giorno dopo giorno”, la raccolta che Quasimodo pubblica nel 1947, a ridosso del conflitto mondiale che lacera l’anima del mondo e dell’individuo.
In questa raccolta sono contenute alcune delle poesie più belle e famose dell’autore, prima fra tutte “Alle fronde dei salici”, che apre l’opera.
Tutti i componimenti inseriti in “Giorno dopo giorno” sono intrisi di immagini disforiche, di sentimenti altrettanto negativi: è l’ombra della guerra, della morte, che offusca la luce della vita.
“L’odore acre dei tigli”
In questo, “Forse il cuore” non fa eccezione: sin dal primo verso, abbiamo la sensazione di essere sprofondati in un mondo buio in cui un silenzio oscuro è sconquassato dalle saette della guerra.
Gli endecasillabi – quasi tutti piani – che compongono la poesia racchiudono immagini di paura, dolore e oscurità. Anche ciò che regala calore e benessere è destinato a scomparire nel buio della notte: i tigli profumati dalla pioggia, ma anche la gioia del ricordo, non dureranno.
“Il nero fumo degli incendi”
Il mondo è troppo buio, troppo violento. Nonostante Quasimodo componga questa poesia nel secolo scorso, a noi che la leggiamo oggi, sembra essere scritta per questi giorni.
Le immagini di una guerra senza fine, che sta dilagando in tante zone del mondo, si rincorrono nei nostri occhi mentre leggiamo il componimento. Il luogo da cui scrive il poeta è asfissiante: il “nero fumo degli incendi”, nonostante la guerra sia ormai conclusa, non cessa di seccare la gola.
Le ferite della guerra non scompaiono da un giorno all’altro, sembra volerci dire Quasimodo. Restano lì, ancorate alla terra che le ha assorbite. Rendono il mondo invivibile, il dolore insopportabile.
Nonostante tutto…
Un “ma” esiste. La poesia, con le sue atmosfere oscure e disperate, sembra pian piano aprire una breccia: scorgiamo un primo, timido bagliore quando scopriamo che i versi sono indirizzati a qualcuno.
È un qualcuno in attesa. E l’attesa, in quanto situazione di stallo protesa verso il futuro, fa già nascere la speranza.
Poi, la chiusa che dà il titolo al componimento, e il senso a queste parole che, per quanto significative, giudica il poeta, “stancano”: nonostante tutto, forse, ci resta il cuore. E questa è la nostra unica speranza per il futuro.