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Cristina Bove, un’Anima che scrive versi Poetica_Mente

Opere e versi di Cristina Bove, scelti da Paola Cingolani. La poetessa Cristina Bove incarna in sè tutte le anime che - in qualche modo - percepiscono, concepiscono e recepiscono la realtà

Una silloge di Cristina Bove e, poetica_mente, attra_versi_amo.

[Amo i versi di questa mente, poetica e non solo.]

Non mi piacciono i versi da autoproclama: preferisco di gran lunga una mente poetica illuminata, attraverso la quale
– persino io – posso riconoscermi e cercare di conoscere l’universo mondo.

La poetessa Cristina Bove incarna in sè tutte le anime che – in qualche modo – percepiscono, concepiscono e recepiscono la realtà.
Una realtà, spesso, fatta di silenzio, assai più eloquente d’ogni parola per coloro che, fra gli aspetti umani, hanno conosciuto da vicino
soprattutto i peggiori.

“Cristina Bove è capace di parlare l’esperanto dell’anima e – scrivendo – è come avvicinata da presenze molteplici a suggerirle e ad
accompagnarla. Riesce a sorprendere e a sorprendersi quando si rilegge, possiede molti doni, è prodiga di un poetàre che incarna le
molteplici forme dell’essere, i colori e i suoni tutti”.

Pienamente consapevole che noi siamo un contenuto appartenente ad un tutto cosmico, la Bove non è mai sola: Cristina è e resta
costantemente “Una per mille”, fortemente collegata all’umanità intera e non solo al genere “donna che sente”.

Siamo buio e luce, possediamo bene e male, mutiamo in un continuo divenire, verso l’infinito. Anche questo ho imparato da lei che, per
me, nutre grande affetto: un amore sicuramente ricambiato, che io vivo come immenso privilegio.
[“La figlia del Mare non può non appartenere all’Infinito e tu sei figlia del Mare” – mi ha detto – definizione nella quale meglio mi riconosco.]

“Per questo articolo ho scelto una sua silloge che osserva l’altra metà del cielo.
Le donne che accoglie in sè – e che racconta con magistrale capacità, con lo spirito d’un dono elargito ad ognuna di esse – ci sono tutte”.

Il suo sguardo poetico è rivolto agli altri, le sue sono poesie metà fisiche e metà appartenenti ad un silenzio che, ad oggi, mai s’era visto
degno di considerazione.

Nel concepire il tempo in maniera circolare c’è un eterno presente, un presente nel quale tutte troviamo una voce a farsi canto.

“Metà del silenzio” – non a caso – è il titolo dell’opera di Cristina Bove dalla quale ho scelto di attingere, selezionando questa silloge, e –
mai prima – scelta m’è sembrata più ardua: di Crì amo ogni sillaba e avrei voluto onorarla come merita. Meglio di come io posso fare…

[Cristina è anche scultrice e pittrice: fra i suoi lavori che preferisco c’è “Il volo”. Questo è stato inserito, con un’opera di Modigliani e una
di Frida Kahlo, in un bellissimo libro di Annamaria Ferramosca – “Trittici” – dove i dipinti hanno ispirato l’autrice.]

I

Metà del silenzio

Le donne della malinconia
dagli occhi di smeraldo
atterrate su rive senza rena
nella penombra dove
la brace divampò d’un tratto
e non c’erano timbri
nè ricorrenze da memorizzare

le donne dai dolori contratti
e dalle voci spalancate al seno
quasi a mostrare l’anima
vanno col viso vuoto
le mani piene nei sorrisi incerti
– vieni, le ho cariche di fiori
non mi spazzare via con un saluto.

E braccia
da stringersi soltanto al proprio petto.

 

II

Guardami

potrei anche non esserci
nel buio sono o non sono
come il famoso gatto di Scrhrodinger
esisto solo se qualcuno osserva.

La logica dei quanti
sarà pure dei tanti compassati cervelli
espressa a formule
le nonmisure mie sulla lavagna

e_vasi comunicanti
per una fenditura
sangue a con_fondere
ti prometto quel bacio di carbonio
diamante a mezzanotte
solo se ti soffermi
alla sua luce.

 

III

Fluitare

Sono di terra
e mi faccio ferita
così mi curerai con le tue mani di fiume
con i verbi del corpo declinati al
singolare apparente
scorrere tra rapide e muschi

m’incepperò sui tuoi traslati
berrò dagli interstizi dei tuoi occhi
colori dei ricordi

e poi vedrai
farsi declivio il seguitare
di calce viva e il rosso
del mio accendino infisso nel midollo
smuovere gli anni grigi del cemento
rinascere dal grumo di titanio
la morbidezza di un respiro
ancora.

 

 IV

A (f)fondo

Perchè sono finiti i tempi
dei segnali rotondi e dei capelli
scendo a tentoni e scavo le mie sere
in cerca di

se lo trovo -segno che c’era-
è libertà di un giro
controverso
come un pagliaio nell’ago

la nudità e l’esilio
didascalici
punti di non ritorno

potrei essere il verbo dei miei giorni
– un giaguaro sornione
acquattato nell’angolo del letto –
un’esca di parole
se un pò d’amore ti fiorisse in bocca.

 

V

Longitudine

mare di ignota percorrenza
un gradino in cambusa
al terminare scale
o capitano
ascoltavi deliri e riposavi all’ombra
di te stesso. Io raccoglievo in fogli
e paratie
la mia vita sommersa

sognavo di remare alla catena
e nell’affanno della latitudine
mio capitano
cartesiane e trigoni
non consentono attracco.

Appoggiami l’orecchio sulla vita
trentatrè sessantaquattro mille
mi dispiace dottore – non ho abbastanza fiato –
dico zero.
Ti concedo il mugugno
marinaio
e un remo corto per il tuo rientro
stringiti il ceppo alle caviglie
quattro misure d’aria.

Intaglio dell’olivo più ritorto
polena immersa seni e fianchi all’onda
cellule staminali e dio risorto in
affondare lento.
Perchè prestavi ascolto
e tendevi le mani ai miei riflessi
avevi sete e ti porsi la bocca di ruscello
o capitano
volevi anche di terra e di colline
cicale imbavagliate alle radici
albero ancora infisso
e non sirena dalle gote rosa
a tagliare riverberi nell’acqua.

Un astrolabio almeno
una cima di scorta o un suono acceso
battito d’una sola mano
è il porto.

 

Opere e versi di Cristina Bove, scelti da Paola Cingolani

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