“Argentea” di Gabriele D’Annunzio è una di quelle poesie brevi, ma evocative, che con pochi versi riesce a vibrare sotto la superficie.
Un fiume che dorme, ma solo in apparenza. La si legge in pochi secondi, ma poi… si riapre. Si rilegge. Si torna indietro. Perché dentro questa brevissima lirica — pubblicata nel 1882 nella raccolta “Canto novo”, quando D’Annunzio aveva appena 19 anni — ci sono già i germi di un’estetica, di un tormento, di una generazione che sarebbe presto sbocciata.
“Argentea” (1882) di Gabriele D’Annunzio
Come una lunga lama
d’argento il fiume dorme
sotto la luna: l’anima
mia vi si specchia informe.
Una lama, un fiume, un riflesso
“Come una lunga lama / d’argento il fiume dorme / sotto la luna”
L’immagine è visiva, tagliente, purissima. Il fiume non è descritto come “placido” o “sereno” — no, è una lama d’argento. Dorme, sì, ma è un sonno ambiguo, inquietante, quasi pericoloso. Il riflesso della luna trasforma la superficie in qualcosa di metallico, affilato, artificiale. Una natura che non consola, ma interroga, minaccia, ipnotizza.
Nel simbolismo e nel decadentismo, la natura non è più rifugio dell’anima, ma specchio ambiguo, luogo del riflesso, dell’alterità. D’Annunzio lo capisce presto: in questo verso già plasma il paesaggio come estensione dell’interiorità, come teatro dell’anima. E qui entra in scena la seconda parte.
L’anima si guarda e non si riconosce
“l’anima / mia vi si specchia informe.”
Ecco la svolta. L’anima si specchia, ma non trova un volto e non trova contorni. È “informe”. Questa è la vera inquietudine della poesia: non il paesaggio, ma la coscienza che lo attraversa.
L’identità si frantuma, non è più stabile. L’anima non si riflette per riconoscersi, ma per vedersi sfumare, svanire, perdersi nel liquido notturno del mondo. In quattro parole — “l’anima mia vi si specchia informe” — D’Annunzio anticipa un sentimento che tormenterà tutto il Novecento: la crisi dell’io, il dissolvimento del soggetto, la perdita di un’identità fissa.
Non siamo davanti all’eroe romantico che lotta col mondo. Siamo davanti a qualcosa di più fragile, quasi simbolista: un’ anima liquida, impalpabile, riflessa e instabile.
La lezione dei francesi
Leggendo “Argentea”, è impossibile non sentire un’eco francese. Non tanto nei temi — la notte, la luna, l’acqua — ma nel tono, nella scelta delle immagini, nella musicalità. È evidente che il giovane D’Annunzio sta dialogando con Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, pur mantenendo una sua originalità.
Il legame tra natura e psiche, tra suono e senso, tra forma e dissoluzione è un marchio di fabbrica del simbolismo. E “Argentea” ne è un piccolo, perfetto esempio italiano. Il fiume che dorme, la lama d’argento, l’anima informe: sono visioni, più che descrizioni. È una poesia che non racconta, ma evoca. E proprio per questo, colpisce.
Una poesia piccola, una poetica intera
Si potrebbe pensare che “Argentea” sia una prova minore, una bozza, un esercizio giovanile. E invece, paradossalmente, questa brevità contiene tutto D’Annunzio: la fascinazione per il sensoriale, la cura musicale, il culto della bellezza, ma anche il senso di smarrimento, di perdita, di identità sfumata. In fondo, l’anima che si specchia senza forma è anche il poeta stesso.
È il lettore. È chiunque si sia trovato, almeno una volta, riflesso in qualcosa che non riesce più a decifrare.
La luna e gli specchi
Oggi siamo pieni di specchi. Specchi digitali, specchi sociali, specchi deformanti. Ci guardiamo continuamente — ma spesso ci sentiamo “informe”.
Senza contorni precisi. Senza sapere più dove finisce il paesaggio e dove cominciamo noi. “Argentea” ci ricorda che questa inquietudine ha una storia, una radice, un nome. E che a volte, bastano quattro versi ben scritti per dire l’indicibile.
Non serve aggiungere altro. Solo rileggere, in silenzio, mentre il fiume continua a dormire sotto la luna.