“Amico mio” (1918) di Khalil Gibran, poesia sul rapporto di amicizia autentico

22 Dicembre 2024

Che cosa accade nell'amicizia? "Amico mio" di Khalil Gibran è una poesia che ci svela la parte più profonda e intima di ciò che si vive tra amici.

"Amico mio" (1918) di Kahlil Gibran, poesia sul rapporto di amicizia autentico

Amico mio di Khalil Gibran è una poesia che esplora le complessità interiori di un uomo che nasconde il suo vero io sotto una facciata, contrapponendo le proprie esperienze private alle percezioni e alle convinzioni del suo compagno.

A differenza di altre opere di Khalil Gibran, che spesso emanano un tono mistico e trascendente, in questa poesia si addentra nella complessità delle relazioni umane e nelle sfide che si incontrano nel navigare tra prospettive diverse.

Amico mio è contenuta nel libro The Madman, His Parables and Poems (Il Folle, le sue parabole e i suoi poemi) di Khalil Gibran fu pubblicato per la prima volta da Alfred A. Knopf negli USA nel settembre del 1918.

Leggiamo questo splendido poema sull’amicizia di Khalil Gibran per comprenderne il profondo significato.

Amico mio di Khalil Gibran

Amico mio, non sono ciò che sembro. L’apparenza non è che un abito che indosso, un abito tessuto con cura che protegge me dalle tue domande e te dalla mia negligenza.

L’io in me, amico mio, abita nella casa del silenzio e lì rimarrà per sempre, non percepito, non avvicinabile.

Non voglio che tu creda a ciò che dico né che ti fidi di ciò che faccio, perché le mie parole non sono altro che i tuoi pensieri in suono e i miei atti le tue speranze in azione.

Quando dici: “Il vento soffia verso est”, io rispondo: “Sì, soffia verso est”, perché non voglio che tu sappia che la mia mente non si sofferma sul vento ma sul mare.

Non puoi capire i miei pensieri marinareschi, né voglio che tu li capisca. Vorrei essere in mare da solo.

Quando per te è giorno, amico mio, per me è notte; eppure anche allora parlo del meriggio che danza sulle colline e dell’ombra purpurea che si insinua nella valle; perché tu non puoi sentire i canti della mia oscurità né vedere le mie ali che battono contro le stelle – e non vorrei che tu sentissi o vedessi. Vorrei stare solo con la notte.

Quando tu sali al tuo Paradiso, io scendo al mio Inferno – anche allora tu mi chiami attraverso l’incolmabile abisso: “Compagno mio, compagno mio”, e io ti rispondo: “Compagno mio, compagno mio” – perché non voglio che tu veda il mio Inferno. La fiamma brucerebbe la tua vista e il fumo affollerebbe le tue narici. E io amo troppo il mio Inferno perché tu possa visitarlo. Vorrei essere all’Inferno da solo.

Tu ami la Verità, la Bellezza e la Rettitudine; e io per te dico che è bene e giusto amare queste cose. Ma nel mio cuore rido del tuo amore. Ma non voglio che tu veda il mio riso. Vorrei ridere da solo.

Amico mio, tu sei buono, prudente e saggio; anzi, sei perfetto – e anch’io parlo con te con saggezza e prudenza. Eppure sono pazzo. Ma maschero la mia follia. Vorrei essere pazzo da solo.

Amico mio, tu non sei mio amico, ma come posso farti capire? La mia strada non è la tua strada, eppure insieme camminiamo, mano nella mano.

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My Friend, Khalil Gibran

My friend, I am not what I seem. Seeming is but a garment I wear—a care-woven garment that protects me from thy questionings and thee from my negligence.

The “I” in me, my friend, dwells in the house of silence, and therein it shall remain for ever more, unperceived, unapproachable.

I would not have thee believe in what I say nor trust in what I do—for my words are naught but thy own thoughts in sound and my deeds thy own hopes in action.

When thou sayest, “The wind bloweth eastward,” I say, “Aye, it doth blow eastward”; for I would not have thee know that my mind doth not dwell upon the wind but upon the sea.

Thou canst not understand my seafaring thoughts, nor would I have thee understand. I would be at sea alone.

When it is day with thee, my friend, it is night with me; yet even then I speak of the noontide that dances upon the hills and of the purple shadow that steals its way across the valley; for thou canst not hear the songs of my darkness nor see my wings beating against the stars—and I fain would not have thee hear or see. I would be with night alone.

When thou ascendest to thy Heaven I descend to my Hell—even then thou callest to me across the unbridgeable gulf, “My companion, my comrade,” and I call back to thee, “My comrade, my companion”—for I would not have thee see my Hell. The flame would burn thy eye sight and the smoke would crowd thy nostrils. And I love my Hell too well to have thee visit it. I would be in Hell alone.

Thou lovest Truth and Beauty and Righteousness; and I for thy sake say it is well and seemly to love these things. But in my heart I laugh at thy love. Yet I would not have thee see my laughter. I would laugh alone.

My friend, thou art good and cautious and wise; nay, thou art perfect—and I, too, speak with thee wisely and cautiously. And yet I am mad. But I mask my madness. I would be mad alone.

My friend, thou art not my friend, but how shall I make thee understand? My path is not thy path, yet together we walk, hand in hand.

Amico mio, ciò che ti dono non è ciò che vivo dentro

Amico mio è una poesia di Khalil Gibran che svela qualcosa di molto profondo, la natura enigmatica e controversa della vera amicizia. Molte volte per far stare bene l’amico si rinuncia a sé stessi, non per adulazione o falsità, ma per evitare che, chi si vuole bene, possa vivere la nostra parte peggiore.

Lo dice esplicitamente Gibran, in modo diretto e comprensibile,

Amico mio, non sono ciò che sembro. L’apparenza non è che un abito che indosso, un abito tessuto con cura che protegge me dalle tue domande e te dalla mia negligenza.

La natura enigmatica del rapporto amicale è come “un abito tessuto con cura”, ovvero una relazione che si ferma alla superficie. L'”io” ovvero chi si è veramente rimane nascosto e inaccessibile agli altri, tutto ciò in nome della protezione dell’amicizia da potenziali conflitti e incomprensioni.

Emerge chiaramente dalla poesia di Khalil Gibran lo scollamento tra i pensieri interni del protagonista della poesia e le sue azioni esteriori.

Le parole del poeta non sono altro che riflessi delle convinzioni dell’amico, sono sempre espresse per essere manifestazioni delle speranze dell’amico. Questa disparità crea una barriera che impedisce una connessione e una comprensione autentica.

Quando dici: “Il vento soffia verso est”, io rispondo: “Sì, soffia verso est”, perché non voglio che tu sappia che la mia mente non si sofferma sul vento ma sul mare.

L’amico va protetto e come tale va sostenuto

L’amicizia va protetta, l’amico è una persona che si vuole bene, come tale non va coinvolta nell’inferno che si vive dentro di noi. Per l’amico deve esistere solo il Paradiso, le fiamme della sofferenza vanno gestite internamente.

Pertanto, ciò che si vive nel proprio, dice Gibran, non va condiviso. L’amico non ha bisogno , non deve in nessun modo vivere l’Inferno della nostra anima. Lui merita solo di trovare un punto di riferimento e accompagnato nel più bello dei mondi possibili.

Gibran lo dice esplicitamente “Quando per te è giorno, amico mio, per me è notte”, eppure anche in quell’occasione il poeta condivide con l’amico solo ciò che lo può rendere felice, “parlo del meriggio che danza sulle colline e dell’ombra purpurea che si insinua nella valle”.

L’amico non può in nessun modo sentire ” i canti della (sua) oscurità né vedere le mie ali che battono contro le stelle”. Il poeta desidera a tutti i costi tenere nascosto ciò che vive dentro.

In questo abisso tra le due prospettive, l’autore de Il profeta attraverso la sua poesia ci svela il mantenimento di una facciata che non va mai trapassata. A tal fine, evita qualsiasi confronto diretto che potrebbe rivelare la sua vera natura. Questo atto di autoconservazione lo isola emotivamente dall’amico, portandolo a desiderare la solitudine.

La follia è un qualcosa da non rivelare mai

Amico mio di Khalil Gibral ci offre un importante messaggio sul vero senso dell’amicizia e ciò che molte volte si verifica nella relazione con l’altro. Il poeta libanese ci fa vivere la naturale inespressa tensione che si crea  tra il bisogno di connessione e il desiderio di auto-conservazione.

Presentando un personaggio che lotta per riconciliare questi impulsi contrastanti, Khalil Gibran mette in luce la complessità delle relazioni umane e la grande sfida che è l’amicizia, ovvero riuscire navigare insieme tra prospettive diverse.

L’amico e la relazione che lega i due è sempre (o meglio dovrebbe essere) improntata alla “Verità”, alla “Bellezza” e alla “Rettitudine”. Tale deve essere il rapporto amicale, il quale deve identificarsi ed essere il manifesto della “saggezza” e della “prudenza.”

Ma il poeta per rendere evidente che c’è sempre un istinto all’auto-conservazione afferma “Eppure sono pazzo. Ma maschero la mia follia. Vorrei essere pazzo da solo.” Tale follia non deve in nessun modo sporcare l’amicizia. Vive in un altro mondo, separato dal sociale, all’interno della parte più intima del poeta.

La poesia finisce con un colpo di genio, che dal punto di vista della dialettica esprime grandezza. Per Gibran l’amicizia deve rimanere allo stadio dell’abito tessuto bene, perché se si va all’interno dell’intimità più profonda si finisce inevitabilmente per vivere il peggio.

L’amicizia sarebbe distruzione, sofferenza, inferno, follia. E Gibran esprime con una bellissima negazione questo concetto. “Amico mio, tu non sei mio amico, ma come posso farti capire?”

È esplicito che il poeta sta rinunciando a quello che lui dona all’altro. Non pretende, non vuole che la sua “follia” (ricordiamoci che il libro che contiene la poesia si intitola Il folle) contamini e possa coinvolgere l’amico.

Ciò diventa ancora più chiaro nell’ultimo verso della poesia “La mia strada non è la tua strada, eppure insieme camminiamo, mano nella mano.” I veri amici devono dividere ciò che amicizia da ciò che è mera “follia”.

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