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“Rimanere in braghe di tela”, la curiosa origine del modo di dire

Cosa lega i carcerati padovani del '200 con l'espressione "Rimanere in braghe di tela"? Scopriamo la curiosa origine di questo modo di dire.

Vi è mai capitato di “Rimanere in braghe di tela”? Probabilmente no, o forse si ma non sapevate dell’esistenza un modo di dire come questo adatto a descrivere tale situazione. Scopriamo l’origine e il significato di questo celebre detto di origine padovana.

Cosa significa “Rimanere in braghe di tela”

Rimanere in braghe di tela è un modo di dire che si usa per indicare una situazione di ristrettezze finanziarie e, nei casi peggiori, la perdita di tutti i propri averi. Quindi “rimanere in braghe di tela” è un’espressione adatta per indicare qualcuno rimasto con pochissimi averi, praticamente sull’orlo del fallimento.

Le braghe, cioè i pantaloni, di tela sono di fatto un indumento poco costoso, quindi usato da chi non ha grandi disponibilità economiche. L’espressione è parente stretta di un’altra molto celebre “rimanere in mutande”, con la quale condivide non solo il significato, ma anche il tipo di immagine fisica a cui si richiama.

L’origine del modo di dire

Come riportato qui, l’origine del detto sembra sia legata alla tipologia di punizione che veniva inflitta ai cittadini padovani colpevoli di aver accumulato troppi debiti. Erano infatti costretti a rimanere in mutande e ad urlare alla popolazione la loro colpa sedendosi sopra una pietra di granito. “So rimasto in braghe de tea” è l’espressione originaria in dialetto padovano.

Il modo di dire trae origine da un preciso aneddoto: nel ‘200 la quantità di cittadini incarcerati per debiti, fallimento e insolvenza era diventato così alto che l’amministrazione comunale di Padova si è trovata costretta ad adottare misure più leggere e veloci per punire gli insolventi.

Ecco in cosa consisteva la punizione: l’insolvente, dopo il regolare processo, veniva condannato a “Restare in braghe di tela”, appunto: veniva quindi denudato, lasciandogli addosso solo le mutande, e issato sulla Pietra del Vituperio, capitello di granito attualmente visibile all’interno di Palazzo della Ragione ma all’epoca collocata in piazza Dei Frutti.

L’insolvente doveva così lasciarsi cadere tre volte sul freddo granito, sbattendo fragorosamente le natiche sulla pietra e urlando alla cittadinanza la sua colpa. Sembrerebbe una prassi molto semplice e poco impegnativa, ma in realtà essa si basava su un concetto che secoli dopo la sociologia identificherà come “stigma sociale”: la cittadinanza, dopo aver visto il condannato restare “in braghe di tela”, sapeva che non poteva di certo più fidarsi di quella persona per i propri affari.

Il contributo di Sant’Antonio da Padova

Altra curiosità legata a tale modo di dire: la pratica delle “braghe di tela” fu introdotta dall’amministrazione comunale dietro suggerimento di un celebre personaggio storico, preoccupato per lo stato orribile in cui versavano i carcerati delle galere cittadine, disumanamente sovraffollate. Chi era il personaggio storico? Si trattava di Sant’Antonio da Padova. Non è un caso se il religioso e presbitero portoghese appartenente all’Ordine francescano predicò in favore dei poveri e per le vittime dell’usura che causava povertà, sofferenza e disperazione tra il popolo.

Nel 1231 quindi Sant’Antonio, protettore della città patavina, tre mesi prima di morire si presentò davanti al Consiglio Maggiore, chiedendo che le pene dei debitori, così dure, fossero sostituite da espiazioni pubbliche.

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