Lingua italiana: “fallare” un verbo arcaico pieno di fascino

19 Luglio 2025

Scopriamo, anzi, riscopriamo un verbo che nella lingua italiana contemporanea ha, purtroppo un suo posto tutto defilato a discapito del suo fascino.

Lingua italiana fallare un verbo arcaico pieno di fascino

Il verbo “fallare”, nella lingua italiana, è oggi considerato arcaico o letterario, ma racchiude in sé una lunga e affascinante storia linguistica che attraversa secoli di uso, poesia, filosofia e saggezza popolare. Proveniente dal latino tardo fallare, una variante del più noto fallĕre — che in latino classico significava “ingannare” — il verbo ha assunto in italiano principalmente il significato di sbagliare o venire meno. Sebbene oggi “fallare” sopravviva solo in registri alti, proverbi, formule idiomatiche o ambiti specialistici, resta una testimonianza viva della ricchezza e stratificazione della nostra lingua.

Le origini e l’uso nella lingua italiana contemporanea

Nel suo significato più comune, fallare indica un errore, una mancanza, un inciampo rispetto a un obiettivo o una norma. È un verbo intransitivo, che prende come ausiliare “avere”, e ha come corrispettivo moderno “sbagliare”. Tuttavia, “fallare” porta con sé un tono più solenne, a volte persino tragico o meditativo, rispetto al più quotidiano “sbagliare”.

Nell’uso poetico e letterario, è stato utilizzato da autori come Petrarca“se ‘n ciò fallassi, colpa d’Amor, non già defecto d’arte” — e Manzoni “posso aver fallato”, per evocare una colpa, un errore che va oltre l’azione pratica: un’incrinatura dell’intento, della volontà, del cuore. Nei versi di Petrarca, ad esempio, si percepisce il senso di un errore inevitabile, legato a forze più grandi dell’individuo — in quel caso, l’Amore stesso.

Anche Dante utilizza la forma riflessiva “si falli”, per indicare la difficoltà di discernere l’errore nell’agire umano: “Sì ch’è forte a veder chi più si falli” (Paradiso, XVII). Qui, il verbo ha un significato più profondo e filosofico: fallare non è solo compiere un errore, ma è sbagliare il senso stesso del proprio cammino, come smarrirsi nella selva oscura.

Il proverbio: la saggezza popolare

Una delle sopravvivenze più tenaci del verbo “fallare” si ritrova nei proverbi, che ancora oggi vengono citati, spesso senza riflettere sull’arcaismo linguistico che contengono. Il più celebre è senza dubbio:

“Chi non fa, non falla”

Un monito che incita all’azione, anche a rischio dell’errore: chi agisce può sbagliare, ma chi non fa nulla è già colpevole di omissione. Una variante, più ironica, recita:

“Chi fa, falla; chi non fa, sfarfalla”

Qui, l’azione, seppur imperfetta, è contrapposta alla leggerezza inefficace di chi resta inoperoso. Ancora:

“Chi assai ciarla spesso falla”

che denuncia il pericolo dell’eccesso di parole, e:

“Fallando s’impara”

che, seppur ormai soppiantato da “sbagliando s’impara”, conserva un’eco più austera, quasi biblica. Questi proverbi testimoniano come “fallare” sia stato a lungo un termine centrale nella riflessione etica e comportamentale popolare, esprimendo un equilibrio tra responsabilità e indulgenza verso l’errore.

Mancare, venir meno

Una seconda accezione di “fallare” — meno nota ma attestata — è quella di mancare. Anche questa ha radici nel latino fallĕre, usato già nella Vulgata per indicare il venir meno di una virtù, di un dono, di una speranza. Dante, nel Paradiso, usa il verbo in questo senso: “li ciechi a cui la roba falla”, cioè manca. L’immagine è potente: fallare non come errore, ma come assenza di sostegno, impoverimento, perdita.

Questa sfumatura si estende anche al linguaggio agricolo, dove “fallare” indica il non germogliare di un seme, la fallanza: un segno della discontinuità della natura, della sua imprevedibilità. Qui l’errore non è colpa, ma condizione. Il verbo acquisisce così una colorazione più neutra o fatalista: l’errore è nella vita stessa.

Fallato: dal tessuto alla metafora

Il participio passato “fallato” è ancora oggi in uso, soprattutto in ambito commerciale o artigianale, per indicare un oggetto difettoso: “un tessuto fallato”, “un vaso di cristallo fallato”. Qui il verbo “fallare” si fa tecnico, concreto: non più errore etico o esistenziale, ma imperfezione materiale. E tuttavia, la metafora resta potente. L’oggetto fallato è quello che non ha raggiunto lo standard, che mostra un’imperfezione, un’anomalia — e per questo può diventare, paradossalmente, unico.

Usi residui e formule idiomatiche

In alcune espressioni, “fallare” sopravvive ancora nell’uso colto o semi-formale: “se il conto non falla”, “il mio orologio non falla”, dove significa non mancare, non sbagliare. Anche qui la dimensione semantica si è ampliata: il verbo racchiude in sé l’intersezione tra precisione, puntualità e verità. In questi casi, dire che qualcosa “non falla” equivale a dire che è affidabile, esatto, che “non tradisce”.

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