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Perché Dante Alighieri è il padre della lingua italiana

Lo scrittore Dario Pisano, esperto dantista, ci spiega perché è giusto attribuire a Dante Alighieri la paternità linguistica dell’italiano

Poniamoci la seguente domanda: nel momento in cui attribuiamo a Dante Alighieri la paternità linguistica dell’italiano, non rischiamo involontariamente di commettere una pur lieve ingiustizia verso quei poeti e quegli scrittori vissuti prima di lui e che pure hanno avuto un ruolo nella creazione della nostra lingua letteraria? Cosa ne facciamo della tradizione pre-dantesca in volgare?

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Il vero padre dell’italiano è Dante

Come scrivono Valeria della Valle e Giuseppe Patota: «Dante è l’unico italiano al quale gli italiani hanno attribuito l’epiteto di padre: questa qualifica non è stata data ai creatori dell’unità di Italia come Camillo Benso di Cavour o Giuseppe Garibaldi, e neppure a singoli membri dell’Assemblea costituente della Repubblica Italiana come Alcide de Gasperi o Sandro Pertini. Il titolo di padre è stato attribuito, genericamente, ai padri della patria o ai padri costituenti, ma nessun italiano è come Dante, padre per antonomasia. Forse, a meritare il titolo di padre della lingua potrebbero essere in molti […] il vero padre dell’italiano è Dante: quello che ha fatto lui per la lingua di tutti noi non è paragonabile, per profondità e vastità di risultati, all’opera di nessuno di quelli che lo hanno preceduto e, si potrebbe aggiungere, di nessuno di quelli che sono venuti dopo.»

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Perché lui e non altri

Ripartiamo da qui e domandiamoci: Perché il padre dell’italiano è Dante e non – per esempio – Giacomo da Lentini, un poeta che ha vissuto e ha lavorato alla corte di Federico II, e che – quando l’autore della Divina Commedia non era ancora nato – già ci consegnava dei componimenti, dei piccoli capolavori che manifestano una indiscutibile maturità linguistica e letteraria?

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A Giacomo da Lentini noi accreditiamo l’invenzione del sonetto ( il più perfetto recinto della poesia italiana: si compone di quattordici versi endecasillabi raggruppati in quattro strofe che una immensa fortuna avrà nella storia della poesia europea, a partire proprio da Dante per arrivare a Caproni e a Pasolini, passando per Petrarca, Shakespeare, Baudelaire ). Non è anche lui uno dei patres della nostra traditio linguistica? E lo stesso discorso potremmo estenderlo ad altri eminenti autori del XIII secolo: Guido Faba, insigne prosatore bolognese; Guittone d’Arezzo ( il fondatore della lirica civile italiana ); per non parlare di Guido Guinizzelli e di Guido Cavalcanti, verso i quali l’Alighieri ha un debito poetico e culturale decisamente cospicuo.

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I maestri del Sommo Poeta

Un esempio: quando Dante incontra il poeta protostilnovista Guido Gunizzelli nel canto ventiseiesimo del Purgatorio lo saluta con parole estremamente affettuose e riconoscenti, chiamandolo « padre mio » ( Pg. XXVI, vv. 91 – 99 )
In questa come in altre tappe del suo iter oltremondano, Dante ci presenta i suoi maestri di lingua e di poesia.

Allora, preliminarmente, mettiamo in chiaro questo: l’italiano non esce dalla penna di Dante come Minerva dalla testa di Giove. Esiste un eccezionale retaggio linguistico che il poeta fiorentino raccoglie e rielabora, e offre al futuro in una veste nuova.

Il nostro autore eredita dalla tradizione una lingua ancora giovane, una lingua entrata splendidamente nell’uso letterario solo da pochi decenni, e riservata prima di lui quasi esclusivamente alla sola lirica amorosa, pur con qualche rilevantissima eccezione (basti pensare appunto alla poesia religiosa; alla corda patriottica di Guittone o alle canzoni dottrinarie dei primi stilnovisti).

Perché Dante è il padre della lingua italiana

Rispondiamo alla domanda di partenza: Dante è indicato come il faber, l’inventor dell’italiano per questo motivo: non è stato il primo a usare il volgare in un’opera letteraria, ma è stato colui il quale lo ha reso capace di un uso letterario senza limitazioni. I poeti e gli scrittori della tradizione anteriore avevano gettato le fondamenta di un edificio linguistico che Dante Alighieri ha elevato. Successivamente, nel corso dei secoli, gli scrittori italiani hanno – ognuno nell’ambito della propria opera – contribuito ad arredare e ad ampliare le stanze di questo edificio linguistico.

L’autore della Commedia ha impresso al volgare una straordinaria accelerazione, dimostrandolo capace di toccare tutti gli argomenti, di esprimere tutte le pieghe dell’animo umano.

Come scrive Bruno Migliorini «ove si intenda lingua nel senso di lingua capace di tutti gli usi letterari e civili è indiscutibile che a Dante spettino i meriti di un demiurgo. Prima di lui alla preponderanza schiacciante del latino, e all’uso occasionale delle due lingue di Francia, letterariamente insigni, non si contrapponevano che dialetti in via di dirozzamento, e tentativi sporadici di assurgere all’arte e alla bellezza. Tutta l’opera di Dante ha una carica spirituale nuova e potente, che in breve tempo opera un rivolgimento nell’opinione pubblica in Toscana e fuori, e fa d’un balzo assurgere l’italiano al livello di grande lingua, capace di alta poesia e di speculazioni filosofiche».

Tullio De Mauro ha dimostrato che delle 2000 parole che costituiscono il lessico di base dell’italiano, 1600 sono già in Dante il quale inoltre raccoglie i materiali lessicali della tradizione, che « col suo sigillo trasmette nei secoli fino a noi».

Parla come Dante

Quante volte, parlando, citiamo Dante senza saperlo? E siamo certi di citarlo bene? Il libro “Parla come Dante” svela la presenza nascosta ma costante del sommo poeta nella nostra vita quotidiana. 

Dario Pisano

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