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Silvia Avallone, “Fare un figlio è la più grande scommessa sul futuro che possiamo fare”

Dopo "Accaio" e "Marina bellezza", è tornata in libreria Silvia Avallone con "Da dove la vita è perfetta" (Rizzoli). Abbiamo intervistato l'autrice

MILANO – Dopo “Accaio” e “Marina bellezza“, è tornata in libreria Silvia Avallone con “Da dove la vita è perfetta” (Rizzoli), un nuovo romanzo nel quale la scrittrice ci racconta storie di donne e uomini che tentano di fare il salto “della barricata”, passando da figli a genitori. Ci racconta un’Italia di periferia, in cui le persone hanno smesso di aspettarsi qualcosa dalla vita, eppure continuano a lottare, nella costante ricerca di un luogo sicuro in cui trovare la felicità, un luogo “da dove la vita è perfetta”. Protagonista è una ragazzina di nome Adele, che nelle prime pagine troviamo in sala parto.

Com’è nato questo nuovo romanzo?

Era da tanti anni che desideravo raccontare le storie che poi ho raccontato in questo libro, in particolare il desiderio di un figlio, di maternità. Volevo entrare in queste pance femminili, vulcaniche e piene di contraddizioni. Solo che per affrontare questi temi e queste storie – che, come dicevo, covavo da molto tempo – ho avuto bisogno del pungolo della vita. Per me la scrittura è sempre al servizio della realtà. Per questa ragione la mia esperienza di maternità è servita come chiave di accesso a storie che non sono affatto autobiografiche, anzi, sono molto più drammatiche e contraddittorie della mia esperienza.

I figli diventano finalmente genitori.

Per me la domanda centrale era cosa significa diventare genitore. Ho scritto due libri incentrati sulla prospettiva dei figli. Questa volta, invece, ho raccontato sempre di figli, ma di figli vogliono passare dall’altra parte della barricata, quindi cambiare prospettiva.

Ci vuole molto coraggio per fare oggi un bambino?

Sì, per diversi motivi: per cominciare, viviamo in un paese con un livello di disoccupazione giovanile infinito. Vari sono poi i problemi che hanno a che fare con la fiducia. Fare un figlio significa avere un’apertura enorme verso il futuro. La fiducia nel futuro viene nominata di continuo ma sta perdendo sempre più un significato concreto: il dramma che viviamo oggi è la perdita della fiducia nei progetti, prima ancora che nel lavoro, e diventare genitore è una questione che ha a che fare col futuro e con le nostre corde più fragili. Io non ho una risposta, non sono così ambiziosa o presuntuosa, ma in questo libro ho cercato una traccia. E sono d’accordo con Dora quando dice che diventare genitore significa innanzitutto accogliere un’altra persona che non ti appartiene, perché i figli non ci appartengono. Noi abbiamo il compito di condurli a cominciare la loro storia, il più serenamente e liberamente possibile. Questa è la più grande scommessa sul futuro che possiamo fare, una vita nuova.

Adele nelle prime pagine dice una cosa drammatica: “Tanto non sarebbe mai cambiato niente”.

La sua prospettiva è una prospettiva di una diciassettenne che cresce in periferia insieme a sua madre. Adele vive sostanzialmente il dramma di questo momento storico in cui le periferie sono territori dimenticati. A parte la visita di Papa Francesco, ben poco altre visite ho visto fare. Sono quartieri in cui non arrivano gli asili, le scuole, le biblioteche. Per me la cultura è la prima vera forma di riscatto sociale, una cultura che manca nel contesto in cui cresce Adele. Come lei, anche la sua famiglia è rimasta da sola. Adele è vittima di una cultura per cui i padri se ne possono andare, le madri possono rimanere sole. Sono queste le ragioni per le quali lei non ha fiducia nel cambiamento. Eppure è molto coraggiosa, perché è ancora capace di avere fiducia nella vita che porta in grembo. In questa drammaticità vuole che questa nuova vita sia felice.

Ti piace scavare nelle contraddizioni quando scrivi. Qual è la contraddizione che non sei mai riuscita a districare?

Non è una, sono tantissime. Innanzitutto quella fondamentale: il fatto che la vita sia strutturalmente imperfetta, proprio perché noi la desideriamo sempre diversa da quella che poi è. A un certo punto viene citato un passo dei “Fratelli Karamazov” di Dostevskij: “Il paradiso è già qui solo che noi non riusciamo a vederlo”. Sicuramente penso che la meccanica del desiderio è ciò che non ci permette di scorgere le varie perfezioni che ci sono nel mondo. Siamo sempre affamati di una perfezione che rincorriamo e che è sempre altrove. Questo è un discorso che ha a che fare proprio con noi, con  la contraddizione della nostra natura, che è natura desiderante. Poi c’è la contraddizione del momento storico, che vede troppa sofferenza, ancora troppe disuguaglianze, troppi problemi che non vengono affrontati anche se la coscienza pubblica e civile si è allargata – penso al discorso che facevo prima delle madri sole e della mancanza di luoghi di cultura, una cultura che viene sempre calpestata, invece che essere considerata un veicolo di libertà per tutti i cittadini. Continuo a pensare che solo studiando si diventa persone davvero libere di scegliere la propria strada.

Il divario tra ciò che realizziamo e ciò che desideriamo è così ampio che – come succede a Zeno – siamo portati a desiderare di non avere desideri?

Zeno è un personaggio complicato perché è stato ferito tanto dalla vita. La sua è una storia talmente drammatica che a un certo punto dalla vita si ritira, ma sceglie di raccontarla. Ed è così che comincia a raccontare la vita degli altri e inizia a osservare la realtà. Il suo desiderio si trasforma nella cura per gli altri. Lui dice a un certo punto che le persone sono più importanti dei desideri. Zeno è un personaggio che a me piace molto proprio perché alla fine chi racconta si mette da parte, testimoniando la realtà e prendendosi così cura delle persone.

Stai parlando di Zeno o parli di te?

No (ride), sto parlando di Zeno. Chiaramente a ogni libro ci si mette in gioco, e in effetti anche a me piace fare un passo di lato, per fotografare, fare indagini e uscire dalla mia stanza.

Quindi dopo “Acciaio” e Marina Bellezza”, il nuovo romanzo sposta la prospettiva.

Anche se Adele e Dora stanno ancora aspettando di diventare genitori, hanno cambiato punto di vista, mettono al primo posto non loro stesse ma il figlio che verrà. Per me il discorso della genitorialità è un discorso molto bello e vasto che non riguarda solo chi vuole aver figli, ma tutti: possiamo essere paterni e materni anche nei confronti del mondo che ci circonda. Lo stato del genitore è una forma di apertura, è altruismo, è una forma di cura verso il mondo che va assolutamente pubblicizzata e sponsorizzata al di là della decisione di avere o meno figli, che deve essere una scelta personale e libera.

Se aggiungessimo un punto di domanda al titolo? “Da dov’è che la vita è perfetta?

Io sono convinta che ci sia sempre una panchina, una finestra, un balcone, da cui ci si affaccia e si intravede un luogo. Però quel luogo è sempre lontano ma vale sempre la pena cercare di raggiungerlo. Credo che sia il movimento ciò che dà un significato alla percezione, non il fatto che ce l’abbiamo in tasca, ma il fatto che ci sta guidando da qualche parte. Non siamo fermi e non ci fermiamo ad aspettare.

Una vita come un eterno romanzo di formazione.

Non possiamo mai dire di essere arrivati. La scrittura e la lettura sono due attività che ci consentono di porci altre domande. Se smettessimo di porcele, se iniziassimo a dare giudizi e risposte invece che entrare nelle vite degli altri, avere curiosità verso quello che non conosciamo, saremmo cittadini peggiori. Invece dobbiamo sempre sentirci curiosi e mancanti e in questo cercare sempre di abbracciare nuove vite e nuove esperienze.

Un personaggio affascinante è anche quello di Dora…

Dora è una donna che ha una disabilità e che non riesce ad avere figli. Attraverso il suo personaggio ho voluto parlare dell’adozione, un argomento che è abbastanza tabù, un modo di diventare genitore che non ha nulla a che vedere con la fisicità e il parto, ma ha a che fare con l’accoglienza dell’altro. Mi piacerebbe che si parlasse di più in Italia dell’adozione, del dolore e della difficoltà di questo percorso perché sono temi che possono aiutare le persone a sentirsi meno sole in questo percorso.

Un’ultima domanda. Quali libri hai sul comodino?

Ho appena finito di leggere “Benedizione” di Kent Haruf. Amo la letteratura americana e questi personaggi che incassano in maniera magistrale, in maniera molto pudica, tutti i contraccolpi della vita. Però le figure che racconto e sento più vicine e da cui prendo spunto sono sempre le donne mediterranee che con nessuna compostezza e tanta rabbia e tenacia lottano nella vita, come quelle raccontante da Elsa Morante ed Elena Ferrante, maestre nel narrare personaggi femminili, tellurici, che tirano fuori tutte le loro contraddizioni di pancia, lontane dai personaggi più composti degli americani. Poi non mi stanco mai di leggere Dostoevskij e gli altri grandi dell’Ottocento.

PHOTO CREDITS: Martino Lombezzi

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