L’arte della fotografia consiste nel vedere le cose attraverso nuovi occhi (o meglio, lenti). Troppo spesso però ci si dimentica delle infinite possibilità che tali ‘nuovi occhi’ offrono. In un’epoca in cui selfie e scatti rapidi popolano le nostre vite in modo persistente, una volta tanto vale la pena ricordare che la fotografia può essere, ed effettivamente è, una forma d’arte in tutto e per tutto, e che lo è stata fin dall’inizio del XX secolo.
La mostra organizzata dalla Tate Modern (Londra), ‘The Radical Eye’, presenta una selezione di fotografie provenienti dalla Sir Elton John Collection. Opere sorprendenti, visionarie e magnetiche, vengono qui esposte al pubblico, in alcuni casi per la prima volta. Nonostante la mostra sia imperniata su temi generali (ritratti, oggetti, documenti) in maniera quasi didascalica, ogni sezione contiene pezzi unici, da assaporare lentamente e ammirare con la giusta calma. E benché ‘The Radical Eye’ non si sviluppi per più di sei sale in tutto, la densità delle opere invita i visitatori a soffermarsi di fronte a ciascuna foto, per assimilarne l’unicità.
Dopo essersi fatti un’idea su ‘ciò che la fotografia può fare che gli occhi non possono’ nella prima sala, i visitatori vengono trasportati nell’universo dei ‘Ritratti’ (Portraits), dove si ammirano (o scoprono) i volti di numerosi artisti famosi. All’inizio del ‘900, la fotografia era considerata uno strumento essenziale nella creazione dell’identità pubblica di personaggi noti come Breton, Tanguy, Brancusi, Stravinsky e Dalì. Le parole di quest’ultimo a proposito del ritratto fotografico sono illuminanti: ‘Cos’è il reale? L’apparenza tutta è ingannevole, la superficie visibile è menzognera’. In un certo senso, nulla è più realistico e vicino al vero di una fotografia, ma nel contempo pose artificiose e finzione sono parte integrante dei ritratti fotografici. Persone diverse scelgono di essere ritratte in modo diverso, e sembrano addirittura occupare il medesimo stesso spazio in modo diverso, come testimonia la serie di ritratti di Irving Penn, scattate nello stesso set. La fotografia può rivelarsi pertanto uno specchio della psiche umana e far emergere in modo inaspettato le profondità di chi ritrae.
La mostra passa in maniera del tutto naturale alla sezione seguente, ‘Corpi’ (Bodies) in senso più generale, esplorando le infinite potenzialità del corpo umano di fronte all’obiettivo. Da composizioni manieriste fino a passi di danza spontanei, la sezione offre scatti di qualità eccezionale. Su una parete sono esposte fotografie legate al tema della maschera e del perturbante (in voga all’inizio del XX secolo), che conducono senza soluzione di continuità a una serie di esperimenti fotografici.
Il capitolo ‘Esperimenti’ (Experiments) espone un’ampia gamma di tecniche fotografiche altamente sperimentali, scoperte o introdotte agli albori dell’epoca modernista. La solarizzazione, ad esempio, venne scoperta per puro caso da Lee Miller, l’assistente di Man Ray. Tecniche quali la distorsione ottica o l’utilizzo di filtri (che godono entrambi di una notevole popolarità di questi tempi, grazie a Snapchat e Instagram) muovono qui i loro primi passi, maneggiati da artisti intenti a vagliare le possibilità del mezzo fotografico.
Notevolmente diversa è la sala seguente, dedicata alle foto nella loro veste di ‘Documenti’ (Documents) e testimonianze visive. Nonostante raffigurino lo stesso soggetto (essenzialmente volti o mezzi-busti di persone), le foto esposte catturano la realtà in modo completamente diverso rispetto ai ‘Ritratti’ osservati in precedenza. Come si vede in ‘Migrant Mother’ di Dorothea Lange, ad esempio, le foto sanno parlare della condizione di tutti gli strati della società, oltre che rivelare la psicologia delle persone ritratte, ma in maniera sorprendentemente autentica. L’opera di Lange ha il potere di assorbire completamente l’osservatore. Gli occhi oscillano tra le teste dei due bambini che si ritraggono dalla macchina fotografica allo sguardo indecifrabile della madre: preoccupato, pensieroso, determinato, disperato, risoluto.
L’ultima parte della mostra riacquista toni prettamente estetici, incentrandosi su ‘Oggetti, Prospettive, Astrazioni’ (Objects, Perspectives, Abstractions). L’obiettivo viene qui usato per catturare nature morte, paesaggi urbani, o disegni intricati, che acquistano una parvenza di opere astratte. Con prospettive a volo d’uccello o inquadrature dal basso (bird’s eye e worm’s eye), le foto dimostrano come la fotografia sia indissolubilmente legata a dove (e da dove) l’obiettivo è puntato. Da ‘Zhukov Tower’ di Aleksandr Rodchenko fino a ‘Rail Spider’ di Toni Schneiders, i fotografi modernisti hanno osservato la realtà da ogni punto di vista possibile.
Le transizioni da una sala all’altra sono fluide e significative: oggetti, volti, luoghi, corpi sono funzionali al dimostrare la potenza del mezzo fotografico. E non solo la sua potenza: come afferma László Moholy-Nagy, la fotografia ha il potere di ‘portare qualcosa di completamente nuovo a questo mondo’. E così fa questa mostra.
Anna Zanetti