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“Non luogo a procedere”, una profonda riflessione sulla guerra

Non ha un nome, eppure ha un’identità precisa lo stravagante protagonista del romanzo di Claudio Magris “Non luogo a procedere”, alla seconda edizione nel novembre 2015 per i tipi Garzanti.

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Protagonista quando è già morto. La dottoressa Brooks, ricercatrice triestina, ha fatto in tempo a conoscerlo, prendendo contatto con lui prima che perisse nel rogo del suo deposito-museo, dove aveva l’abitudine di dormire in una bara, davanti a un’autoblindata, con un elmetto tedesco in testa e una maschera da samurai sul volto, circondato da cimeli raccolti in una vita intera. Una bizzarra collezione di reperti di guerra e di armi. Materiale eterogeneo, radunato in una ricerca spasmodica. Cimeli piccoli, medi, grandi, grandissimi. Cannoni, veicoli, panzer, finanche sommergibili.

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La Brooks, ebrea e nera – madre israelita, padre statunitense di colore – è la sintesi di due esilii secolari. Quanto al creatore della raccolta, non aveva difficoltà a riconoscere di farsi mantenere dalla moglie, che obbligava a lavorare da domestica, a dispetto del passato di antica nobiltà della famiglia ungherese. Una fondazione, legata all’Assessorato alla cultura della Città di Trieste, ha dato a Luisa Brooks l’incarico di verificare l’ipotesi di un progetto. Si tratta di dare forma alla raccolta o a quello che ne era rimasto dopo l’incendio che aveva consumato anche il singolare collezionista. Anche il museo aveva un nome eccentrico: “Ares per Irene ovvero Arcana Belli. Museo totale della guerra per l’avvento della pace”.

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Lui si batteva per la pace. I materiali bellici dovevano costituire un monito alla messa al bando di tutti i conflitti. Da bambino, ancora suddito asburgico a Trieste, giocava continuamente con i modellini alla battaglia di Lissa e proprio vedendo le barchette affondare nel laghetto del giardino e i soldatini di cartapesta disfarsi in acqua aveva aperto gli occhi sulla necessità di mettere fine alle guerre. La gioia di distruggere va recisa alla radice. Non era sopravvissuto all’inspiegabile incidente. Con lui erano andati bruciati gli appunti che si dice avesse febbrilmente copiato dalle pareti scrostate della Risiera di San Sabba, in cui durante l’occupazione nazista erano stati reclusi e uccisi migliaia di ebrei. Intanto, nomi, frasi e pensieri erano stati cancellati, coperti da mani di calce, che aveva “sanificato” i muri. Anche la democrazia imbianca i sepolcri, a costo di cancellare la memoria, ma in questo modo erano andati perduti i nomi di collaborazionisti e amici dei boia, che le vittime avevano scritto per disprezzo nelle latrine. In tanti avevano tirato un sospiro di sollievo, dopo essere riusciti nel dopoguerra a lavare le mani sporche di sangue o lorde del sudiciume di quelle dei carnefici, che avevano stretto più volte. Tanto più potevano rilassarsi ora che il museo bizzarro era andato in fumo con i suoi segreti.

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Le mani dei boia ricorrono anche nella storia personale di Luisa. Più esattamente della madre, Sara. Per convenienza, la chiamavano Laura nella famiglia cristiana di Salvore alla quale era stata affidata bambina dalla mamma Deborah, una figura coraggiosa e sofferente, di cui non si consce a lungo la sorte. Superata la guerra e cancellate le leggi razziali fasciste, Sara era andata ad abitare a Trieste con gli zii, autoreclusi in casa. Non facevano vita di società, meno che mai accettavano gli inviti degli ufficiali alleati, garanti della Zona B. Non volevano essere costretti a stringere la mani di ospiti che anni prima avevano frequentato serate con altre divise. Zia Nora e zio Giorgio non avevano torto: ai party americani partecipava perfino Lerch, l’SS che comandava il lager nell’ex mattatoio di San Sabba. Passata indenne la bufera post bellica, si era riciclato in nobiluomo locale.

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Come si diceva, il personaggio senza nome di Magris ha un’identità. È quella di Diego de Henriquez (1909-1974), studioso e collezionista bulimico di cimeli nel suo “Civico Museo della guerra per la pace”. Come l’innominato, ha frequentato il Nautico anche se odiava il mare. Nel 1945 è stato interprete e negoziatore, ha cercato instancabilmente reperti sul Carso ed è morto nel rogo del suo deposito. Era un triestino originale e geniale, di larga cultura. Sua la debordante collezione di armi e materiale bellico d’ogni genere. Era fermamente convinto che anche la sola esposizione di tanti strumenti crudeli di morte servisse a convincere tutti dell’esigenza di cercare la pace e di difenderla. Nella ricerca frenetica di questo obiettivo straordinario è stato lasciato colpevolmente solo.

Eugenio Valore 

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