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L’incantesimo di un contatto profondo: un viaggio nei romanzi di John Cheever

Come fa notare Goffredo Fofi nella postfazione a Falconer (1975), l’etichetta di “maestro del racconto” che la critica letteraria assegna a John Cheever, altrimenti noto come “Cechov dei sobborghi”, non deve eclissare il suo notevole talento di romanziere. Infatti, è nella narrazione distesa, aperta, articolata che Cheever, a mio parere, mostra le sue eccellenti doti di artigiano della storia. Queste doti si ritrovano nella «affilata capacità di cogliere il bizzarro nel normale, il dolore nell’euforia, il significativo nel gratuito» (Ibidem), nella grazia e nella profondità con cui costruisce le psicologie dei suoi personaggi, ma anche nell’abilità con cui li fa interagire tra di loro.
Questa abilità possiede una forza che travalica i singoli romanzi (in particolare Cronache della famiglia Wapshot, Falconer, Sembrava il paradiso) e li attraversa trasformandoli da prodotti di letteratura in piccoli spazi in cui è possibile rintracciare, al di là delle diverse vicende attorno a cui si snodano le trame, un universo letterario in cui Cheever dà spazio e voce a un femminile svelato in tutta la sua complessità, a volte ancipite, e ad un maschile sorprendentemente rotondo, capace di osservazione, accoglienza, sostegno, attesa, tolleranza.
Emblematica in questo senso è la relazione tra Coverly e Betsey in Cronache della famiglia Wapshot. Lei, Betsey, divorata da una solitudine troppo ingombrante per consentirle di valutare con obiettività le situazioni, capace di una gentilezza che trasuda un bisogno morboso di contatto e di compagnia, si trasforma in una bestia ferita nel momento in cui i vicini di casa, con cui lei e il marito avrebbero dovuto trascorrere la serata del suo compleanno, declinano l’invito accampando una banale scusa. L’idea di non avere la coppia di amici a cena risveglia in Betsey un dolore antico, un panico dell’abbandono che ne allucina la mente:
«Betsey restò immobile nel buio, come se fosse stata aggredita dalle Furie. Ogni avvenimento, ogni momento della sua vita, era percorso dal filo metallico della solitudine; si era illusa ogni volta che aveva creduto di essere felice, quella sua felicità nascondeva invece il dolore della solitudine e tutti i suoi viaggi e tutti i suoi amici erano il vuoto e ogni cosa era il vuoto. Tornò a casa e più tardi, quella notte, abortì» (Cronache della famiglia Wapshot, p. 304).
Lui, Coverly, marito capace di un amore limpido, immediato – «Coverly la guardò attraversare l’ingresso illuminato fino al portone interno. Era magra, non bellissima, ma lui sentì, proprio come un cigno che sa riconoscere la sua compagna, di essersene innamorato»(Cronache della famiglia Wapshot, p.201) – eppure costante, paziente, comprensibilmente venato da moti di rabbia, che però non ne compromettono la nobile essenza:
«Coverly guardava alla fragilità di Betsey come a qualcosa di poetico e appassionante e quando sapeva che era sola provava al tempo stesso sentimenti di compassione e di aggressività. Era sola e lui l’avrebbe difesa. C’era tutto questo e c’era anche il fatto che il loro rapporto si era evoluto con grande regolarità e questa loro unione o matrimonio informale nato in una città enorme e sconosciuta rendeva Coverly felicissimo. […] Lui riconosceva la sua fragilità ma riconosceva e apprezzava anche, e a un livello più profondo, la sua grande umanità e i suoi modi toccanti da vagabonda, perché era questo che lei affermava di essere» (Ibi, p.202).
L’amore di Coverly non vacilla nemmeno quando l’amata moglie scappa di casa lasciandogli come unico segno il libretto bancario svuotato. Di fronte alla voragine dell’abbandono, Coverly, stordito dal dolore, viene attratto dal calore di un contatto omosessuale che, però, non è in grado di eclissare il profondo sentimento che prova per la moglie. E infatti:
«Betsey era tornata a casa […]. Una sera, rientrando dal lavoro, Coverly trovò la casa illuminata e splendente e la sua Venere con un nastro nei capelli. Era stata da una sua amica ad Atlanta ma ne era rimasta delusa. Sempre quella sera molto più tardi, dal letto udirono il rumore della pioggia; Coverly si infilò un paio di mutande, uscì dalla porta sul retro, attraversò il giardino dei Frascati e quello dei Galen e giunse in quello degli Harrow dove il signor Harrow aveva piantato dei cespugli di rose in una piccola aiuola a forma di mezza luna. Era tardi e tutte le case erano immerse nel buio. Coverly colse una rosa e tornò indietro, attraverso il giardino dei Galen e quello dei Frascati, fino a casa sua, e depose il fiore tra le gambe di Batsey perché lei era tornata a essere la sua piccoletta, la sua smorfiosetta, il suo piccolo, dolce passerotto».
Le donne dei romanzi di Cheever sono creature complesse, spesso volubili e capricciose (Renee di Sembrava il paradiso) o irrimediabilmente sequestrate da un dolore profondo che le rende imprevedibili (Clarissa di Cronache della famiglia Wapshot) se non addirittura impenetrabili nella loro intimità, cui si accompagnano, quasi per contrasto, uomini capaci di un amore solido, profondo, espresso dalla volontà di comprendere, ascoltare, raggiungere l’interiorità dell’amata non per predarla ma per rendere possibile quel piccolo prodigio di contatto e incanto che è la relazione.
Con una scrittura limpida, affilata, avvolgente, Cheever tratteggia uno spazio narrativo in cui il doppio, tema ricorrente nei suoi romanzi così come nella sua vita – Cheever imbarazzato dalla sua bisessualità che però non ha mai represso, marito infedele eppure sempre presente, autore nato in provincia che non si è mai sentito all’altezza dei salotti newyorkesi – non si traduce nei tratti dell’insidia e del pericolo ma, al contrario, introduce l’altro possibile, connota un nuovo mo(n)do di relazioni significative in cui la complessità femminile si accompagna a figure maschili toccate solo in superficie dalla frustrazione e dall’aggressività e capaci di una affettività calda, solida, autentica. Un esempio magistrale si rintraccia in Falconer, sicuramente uno dei più riusciti romanzi di Cheever, in cui Eben, il fratello del protagonista, descrive il rapporto con la moglie Carrie, che passa intere giornate a parlare con il televisore, ignorando il marito e la loro relazione:
«Quando torno a casa alla sera qualche volta mi dice ciao, ma molto di rado. È troppo indaffarata a parlare con gli annunciatori per occuparsi di me. Poi, alle sei e mezza, dice: “Ti porto in tavola la cena”. Certe volte è l’unica frase che riesco a cavarle di bocca in tutta una giornata, o anche in tutta una settimana. Poi mi serve il pranzo e se ne torna col suo piatto in cucina ed eccola lì che cena parlando e ridendo a uno show che si chiama Prova ed errore» (Falconer, p. 177).
Stremato ma non vinto dai silenzi di una domestica incomunicabilità, Eben, personaggio cui vengono dedicate poche pagine poste, tra l’altro, solo alla fine del romanzo, nello spazio di un monologo esplode in tutta la sua profondità grazie alla forza dirompente del sentimento che prova per la moglie:
«E adesso ti racconto cosa ho fatto io. Ho un amico, un certo Potter, che lavora alla tv. […] E così gli ho chiesto se era difficile partecipare a Prova ed errore e lui ha detto no. […] Qualche giorno dopo mi ha telefonato dicendo che probabilmente mi avrebbero fatto intervenire a Prova ed errore l’indomani. […] È uno di quegli spettacoli in cui si pagano penalità e quello che bisognava fare quella sera era camminare su una fune sopra una vasca piena d’acqua. Mi diedero un vestito perché mi sarei comunque bagnato e mi fecero firmare una quantità di liberatorie. Così mi misi il vestito e feci tutta la prima parte dello spettacolo sorridendo alle telecamere. In realtà sorridevo a Carrie. Pensavo che una volta tanto, stesse forse guardando il mio sorriso. Poi mi arrampicai fino alla fune su una scala di corda e cominciai a camminare sopra la vasca e ci cascai dentro. La risata del pubblico non fu troppo fragorosa e così ci aggiunsero delle risatacce registrate. Dopo di che mi vestii e appena tornato a casa gridai: “Ehi, ehi, mi hai visto alla televisione?” La trovai sdraiata su un divano del soggiorno, accanto al televisore grande. Stava piangendo. Pensai allora che avevo sbagliato tutto, cioè che lei stesse piangendo perché io cadendo nella vasca avevo fatto la figura dello stupido. E poiché non la smetteva di piangere e di singhiozzare, dissi: “Cos’hai cara?” e lei disse “Hanno ammazzato l’orsa polare!”
Avevo sbagliato spettacolo ma non si può dire che non ci avessi provato» (Falconer, p.178).

Nel mettere in scena le contraddizioni del mondo borghese che rappresenta, Cheever descrive relazioni difficili ma mai inficiate dalla banalità, dove il tono emotivo è sempre denso e i gesti sono rivelatori di personalità profonde, complesse; queste molto probabilmente sono il precipitato letterario della quotidianità dell’autore, del rapporto profondo eppure carico di contraddizioni che ha con la moglie Mary – amata e odiata Mary, che sarà più volte sul punto di lasciare e che però non abbandonerà mai. E in queste sue oscillazioni emotive, nel suo caustico desiderio di vicinanza, necessario per combattere la solitudine che non lo ha mai abbandonato, Cheever costruisce una narrativa potente, ponti di parole che uniscono donne tenacemente irrisolte e uomini contrastati che tentano, tra mille contraddizioni, di tenerle per mano replicando, storia dopo storia, l’incantesimo di un contatto profondo. Perché forse, parafrasando una poesia che Cheever scrisse nel 1980 per la moglie Mary, mentre assieme si cerca il fantasma dell’amore si trova qualcosa di meglio e di più durevole.

Barbara D’Amen

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