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“Domare il drago”, un saggio sulla poesia versatile

Domare il drago” (Mondadori, 2018) è l’ultimo libro di Isabella Leardini (Rimini, 1978), poetessa e direttrice artistica del festival Parco Poesia. Uscito proprio sul tramontare dell’estate, “Domare il drago” è un saggio sulla poesia, ma lascia nelle mani del lettore che assapora ogni sua frase, pagina dopo pagina, il retrogusto tipico della narrativa. È un libro come pochi, versatile, adatto un po’ a tutti, originale. Non a caso è inserito da Mondadori nella collana “Vivere meglio”.

Leggendo “Domare il drago” si è percorsi da un flusso di citazioni, dove compaiono, uno alla volta, voci di grandi poeti a cui è possibile riconoscere il merito di aver cadenzato la scrittura dell’autrice: Elisabeth Barrett Browning, Cristina Campo, Marianne Moore, Eugenio Montale, Milo De Angelis, Emily Dickinson, Antonio Riccardi, Giorgio Caproni, Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Seamus Heaney ed altri ancora. Veri protagonisti di questo libro sono i ragazzi “che corrono nel buio” (il volume è dedicato a loro, infatti). Sin dalle primissime pagine, l’autrice ci svela qual è la ragione più autentica che attrae i ragazzi a seguire un laboratorio di poesia: dare una forma alle cose senza nome. Ognuno di loro ha partecipato al laboratorio di poesia (organizzato dall’autrice stessa nelle scuole elementari, medie e superiori).

La Leardini narra le loro esperienze (fatti realmente accaduti), delineando le figure dei giovani, aspiranti poeti, in un modo unico, attraverso le loro poesie e servendosi anche di pratici esercizi di scrittura. Ad un certo punto della storia, una ragazza in particolare ci colpisce. È lei che ha ispirato la scrittura di questo libro: Linda. Inizialmente è ricoverata in ospedale e le sue ferite sono così struggenti da spingerla a rifiutare la luce e sarà lei stessa a spiegare meglio perché le preferisce il buio. E proprio nel buio si trovano i ragazzi di Isabella, nella giungla che è la poesia, mentre lei è la loro guida. Nella loro “selva oscura” i ragazzi dovranno affrontare il drago, guardarlo, domarlo. Perché scrivere è domare il drago e renderlo nostro guardiano. Così, dovremmo rimediare il coraggio di spegnere la luce, di affrontare le ombre nella foresta (o la luce; o scrivere per far sì che l’inchiostro nero che abbiamo in circolo subisca metamorfosi, diventando un amuleto da sfoggiare): scrivere è quell’appuntamento al buio con noi stessi, con le nostre paure, con il dolore che spesso si fa “nodo” e stringe.

Fine ultimo del laboratorio non è quello di rendere tutti poeti: non si tratta di un corso di scrittura creativa, ma di un metodo – una mappa – per apprendere come focalizzarsi sulla verità (e per imparare a dirla nel modo più perfetto che ci sia: ovvero grazie al linguaggio “obliquo” della poesia, usando metafore e ad altre figure retoriche). Un metodo per rivelare la parte latente che ci contraddistingue, per conoscersi: il “metodo dei sette sì” da dichiarare alla poesia. Il primo sì è al silenzio. Il secondo sì è alla parola. Il terzo sì è all’altro. Il quarto sì è il lavoro (labor limae). Il quinto sì è toccare il nodo. Il sesto sì è la voce. Il settimo – ed ultimo – sì è la forma fissa. Dunque, cos’è la poesia? Sicuramente, né lieve né indolore, la poesia è la capacità di riattivare il linguaggio.

E per farlo si serve di quel quid che è il talento. Il talento non è democratico, però – avverte Leardini – non è nemmeno un diritto, ma chi lo possiede ha il dovere di addestrare la propria inclinazione. Una responsabilità che splende. In sostanza, grazie alle parole di questo meraviglioso saggio, introspettivo, psicologico, magico, apprendiamo quale sia il potere terapeutico della poesia: “un dolore trasformato in bellezza è la strana fierezza che ora sentiamo alleata”.

 

Vernalda Di Tanna

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