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“Chiederò perdono ai sogni” di Sorj Chalandon, il racconto di un’umanità ferita

Esistono alcuni libri che vagano tra gli interstizi delle librerie senza trovare pace. Vengono costantemente spostati, tollerati nel loro esistere, e qualche volta, finiscono per essere rispediti al mittente. Altre volte, invece, capita che il loro destino sia diverso. Capita che qualcuno, mosso da svariati motivi, ne sovverta le sorti, concedendogli una chance.

Ecco, esattamente in questo modo, del tutto casuale, è avvenuto il mio incontro con il romanzo “Chiederò perdono ai sogni” di Sorj Chalandon, pubblicato in Francia nel 2011, edito in Italia da Keller nel 2014, vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Grand Prix du roman de l’Académie française dell’anno 2011. La sola iscrizione iniziale, presa dalle strade di Belfast, vale l’intero libro: “Sapete cosa dicono gli alberi quando la scure entra nella foresta? Guardate, il manico è uno di noi!” Il manico ha un nome, si chiama Tyrone Meehan, è nato a Killybegs, nell’Irlanda del Nord, è stato cresciuto da un padre che quando lo picchiava, da piccolo, lo faceva gridando in inglese, perché le cose brutte rimanessero dall’altra parte. Già, l’altra parte. Il nemico. Quello odiato, osteggiato, combattuto con ogni mezzo per quasi tutta la vita. Quasi. Perché spesso anche nelle vite degli idealisti più irreprensibili vi sono delle falle, magari in uno di quegli interstizi che si riempiono di polvere e che fingiamo di non vedere più. Ed è lì, è proprio lì che il nemico sferra il suo contrattacco, in modo irrimediabile, costringendo il militante a diventare il peggior nemico di se stesso: una spia, un doppiogiochista, un traditore.

Chalandon ricostruisce con un stile asciutto e indimenticabile un periodo storico molto spesso dimenticato, quello delle lotte per l’indipendenza dei cattolici nordirlandesi combattute tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. L’autore lascia che il racconto fluisca, tra passato e presente, attraverso la voce stessa del protagonista, diviso tra ciò che era e ciò che è diventato. Nessuno può sottrarsi ai conti con la propria esistenza, nella finzione letteraria come nella realtà. In una delle pagine più toccanti di quest’opera intensa e petrosa, Tyrone Meehan si ritrova a fare un bilancio della propria parabola umana. Il manico agisce. Il manico pensa.

“Mai più la guerra, e la pace per sempre. E io, in un cono d’ombra, senza neanche l’uniforme, senza medaglia, senza amici, senza urrà. Io in piedi in mezzo al mio popolo, sconosciuto, anonimo. Io che avrò fatto tutto questo, tutto. Che potrò finalmente chiedere perdono a Danny Finley, a Jim O’Leary, e chiedere perdono ai miei sogni.”

Chalandon ci regala un romanzo potente, un racconto che entra sottopelle, per non andarsene mai più. Indelebile rimane la narrazione delle proteste dei militanti in carcere, gli scioperi dell’igiene, quelli della fame, i sacrifici estremi di personaggi come Bobby Sands.
Indelebile rimane il racconto di un’umanità ferita, al di là del bene e del male. Il confine, quel maledetto confine, geografico e interiore, non stabilisce ragioni o torti, non dà giudizi morali, ma si limita a raccogliere testimonianze, a ricevere scritte sopra i muri, a diventare megafono di vite spezzate e di famiglie divise per sempre. Non c’è assoluzione per nessuno, non ci sono santi e non ci sono eroi. Ci sono solo gli uomini, nella loro finitudine, nella loro imperfezione, e nella loro brutale bellezza.

Silvia Spinelli

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