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Quando la “Commedia” di Dante diventa ufficialmente “Divina”?

Era il 1340 quando Edoardo III d’Inghilterra, proclamandosi re di Francia, provocò, dopo una guerra più o meno fredda che durava già da qualche anno, quella che tempo dopo sarebbe passata alla storia come la Guerra dei Cent’anni.

Era il 1340 quando Edoardo III d’Inghilterra, proclamandosi re di Francia, provocò, dopo una guerra più o meno fredda che durava già da qualche anno, quella che tempo dopo sarebbe passata alla storia come la Guerra dei Cent’anni. E la mancata approvazione da parte del Parlamento inglese del finanziamento all’impresa determinò la successiva insolvenza del re nei confronti dei banchieri fiorentini di cui era debitore. Fu quello che oggi – con termine che ha soppiantato da qualche tempo la guerra atomica al primo posto tra i peggiori incubi degli europei – chiameremmo tecnicamente un default (trascurando ovviamente la differenza sottile, e tutto sommato poco significativa all’epoca, tra “debito sovrano” e “debito del sovrano”). Lo scenario che ne seguì ci farebbe rabbrividire: le banche fiorentine più esposte, i Bardi e i Peruzzi, fallirono quasi subito, le altre, quelle minori, a seguire, e questa catena di crack finanziari contrassegnò gli anni Quaranta del Trecento come i più cupi dopo circa un secolo di ininterrotta crescita demografica ed economica (il boom del Duecento), fino alla Peste Nera del ’47-49, flagello europeo secondo per mortalità solo all’ultima guerra mondiale.

Dante era morto da circa vent’anni, la sua Commedia è certo che circolasse già vivo l’autore (di sicuro a Bologna almeno a partire dal 1317), ma, dei circa seicento codici che costituiscono la tradizione manoscritta più antica, quelli anteriori al 1340 si contano sulle dita di una mano. Si ha così l’impressione che la fortuna di Dante in Italia inizi davvero solo con la crisi del Trecento. Nel 1339, anzi, benché morto, il nostro più grande poeta rischiò la condanna per eresia, e la sua Monarchia restò a lungo tra i libri proibiti. Sembrerebbe che fossero proprio il tracollo economico delle “multinazionali” fiorentine e la peste nera, percepiti probabilmente soprattutto dai suoi ex-concittadini come il realizzarsi di una sua maledizione, a lanciare definitivamente l’autore della Commedia nell’Olimpo dei grandi. Nel 1350, appena esauriti gli effetti dell’epidemia, la Compagnia fiorentina di Or San Michele decise di mandare Giovanni Boccaccio a consegnare a Ravenna dieci fiorini d’oro a suor Beatrice, ovvero Antonia, la figlia del poeta. Una sorta di risarcimento morale postumo e più o meno consapevolmente scaramantico? Negli anni successivi sarà proprio Boccaccio, recente autore del Decameron, a dare il via in grande stile alla celebrazione del suo auctor, raccogliendo e trascrivendo codici, compilando una breve biografia, iniziando (domenica 23 ottobre 1373) un ciclo di letture dantesche nella chiesa di Santo Stefano in Badia (ciclo che peraltro non vedrà mai la fine: nel 1374, tra marzo e settembre, si diffonde una nuova epidemia; a dicembre del 1375, malato da qualche tempo, muore – ma non di peste – lo stesso Boccaccio). 

Sembra che sin dagli inizi il rapporto degli italiani con Dante sia ondivago, che conosca alti e bassi, che fluttui tra momenti quasi di adorazione e altri di distacco se non di oblio, che si accenda e si spenga nel corso dei secoli a intermittenze più o meno regolari. E i momenti migliori, chissà perché, sembrano essere proprio quelli di crisi, quando l’Italia ha da ridestarsi da un incubo o da una pesante recessione. Tra Boccaccio e Leonardo Bruni si avvia, nel pieno culto di Dante, la ripresa economica che porterà al Rinascimento; ma poi invece il classicismo quattro e cinquecentesco, negli anni del nuovo boom, gli preferirà di gran lunga Petrarca. Per un nuovo fervido risveglio della passione dantesca bisognerà attendere, dopo la crisi del Seicento, gli anni del riscatto nazionale, tra fine Settecento e Risorgimento. Fatta l’Italia, invece, la cultura idealistica tra De Sanctis e Croce riprende il vecchio vizio dei classicisti della lettura frammentaria, per canti scelti, il Dante sublime di Paolo e Francesca, di Ulisse, del Conte Ugolino, mentre tutto il resto è “struttura”, “non poesia” (perché la poesia è “intuizione pura” e tale sarebbe solo in qualche canto del poema, non nel libro nel suo complesso). Il Dante in pillole viene imposto nelle scuole e si protrae fino al giorno d’oggi: Manzoni si legge tutto, di Dante una decina di canti per cantica. Eppure su Google trends, nelle ricerche (di tutto il mondo) dal 2004 ad oggi, la Divine Comedy di Dante batte The Betrothed di Manzoni 57 a 25. 

© Francesco Fioretti

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