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Paolo Cognetti, “nel mio libro racconto il viaggio che mi ha cambiato”

Paolo Cognetti torna nelle librerie con un nuovo libro, "Senza mai arrivare in cima". Una cronaca del suo viaggio da nomade in Nepal, sulle cime dell'Himalaya

MILANO –  Dopo il successo de Le otto montagne, il romanzo che nel 2017 ha vinto il Premio Strega, Paolo Cognetti torna nelle librerie con un nuovo libro, già in vetta alle classifiche di vendita. Senza mai arrivare in cima non è propriamente un romanzo, bensì una cronaca del viaggio che Paolo Cognetti ha compiuto in Nepal lo scorso anno. A Bookcity l’autore ha presentato il suo libro, raccontando cosa ha voluto dire per lui il viaggio e la scoperta di una montagna così diversa come quella nepalese.

La tensione alla scoperta

«Io forse sono l’ennesimo occidentale che guarda a est per trovare quello che sta cercando». Il viaggio di Paolo Cognetti è nato dopo l’uscita de Le otto montagne:  «dopo che ho scoperto che Pietro (il protagonista de “Le otto montagne” N.d.R) sarebbe andato in Himalaya ho capito che dovevo andarci anche io. Cercavo però non l’Himalaya “mainstream”, dove la gente va a farsi i selfie da postare su Instagram. Cercavo una montagna vergine e integra, quella che da noi in Europa già non esiste più. Dove era l’Himalaya autentica? Mi sono diretto a ovest del Nepal, in una zona non battuta, più simile come vegetazione al Tibet, meno boscoso e più desertico. Lì ho trovato quello che stavo cercando. Ho incontrato la religione buddhista, che è particolarmente viva in quelle vette. In città riusciamo a fare a meno di un senso religioso, la montagna invece ti fa venire un senso del sacro. E man mano che salivo vedevo simboli religiosi, preghiere scritte sui muri, templi, mulini…».

Senza mai arrivare in cima

«Fare un pellegrinaggio per i buddhisti tibetani consiste nel girare intorno alle montagne, e non arrivare in vetta. Questa idea mi ha affascinato tantissimo, tanto che ne ho fatto il titolo del libro. A noi occidentali istintivamente viene da andare in cima, in cima mettiamo le croci, gli alpinismi vogliono andare in cima, hanno il mito della vetta. Invece in Tibet le cime spesso sono sacre e inviolabili, si fa il giro intorno, e questo mi ha colpito: più che una conquista, è comprensione e abbraccio».

Dopo le Otto Montagne

«Per un anno ho abitato dentro la storia delle otto montagne, e ho avuto desiderio di aprire le finestre di questa “casa degli specchi”, scrivere romanzi è un po’ così. È essere un po’ prigionieri di se stessi e delle proprie storie, c’è un grado di immedesimazione altissimo nella storia che stai scrivendo. E per me scrivere di viaggio è stato liberante: mettersi nella posizione di uno che impara, che osserva e fa vuoto e si lascia riempire. Scrivere un libro così è più gioioso, mi ha fatto bene, perché mi ha costretto a pormi in una posizione di ascolto verso le cose. Fare lo scrittore è, nell’invisibile, provare a capire  cosa si vede. Per questo occorre mettersi in una posizione di ascolto».

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