Nel dicembre 2018 Nadia Toffa si trovava a Trieste per lavoro, quando un improvviso malore l’ha costretta a essere ricoverata d’urgenza in ospedale. Al risveglio, la notizia dei medici: Nadia aveva un tumore, immediatamente operato ed asportato. Da quel giorno per l’instancabile reporter e conduttrice delle Iene è iniziato un nuovo capitolo della vita, inscindibilmente legato alla malattia e alla battaglia contro di essa. Il tumore, infatti, è ritornato pochi mesi dopo, e Nadia è attualmente in cura. Il suo libro, Fiorire d’inverno, ha suscitato molte polemiche. C’è chi l’ha accusata di voler monetizzare sulla sua vita privata, chi l’ha accusata di banalizzare la sofferenza, chi si è infastidito per alcune dichiarazioni infelici di Nadia sui social media, in cui affermava che “il cancro è un dono”. Fiorire d’inverno va oltre tutto questo, ed è la storia senza veli di Nadia Toffa, dai suoi anni di tenacissima adolescente fino agli anni delle Iene, della passione per il giornalismo e il raccontare storie. Una personalità forte e vitale irradia dalle pagine del libro: è la storia di una persona che non si è mai arresa.
Nel tuo libro spesso dici che hai preferito essere riservata sulla tua malattia e soprattutto sulle cure che stavi affrontando. Cosa ti ha spinto a voler scrivere un libro e ad esporti così tanto?
Sono sempre stata molto riservata sulla mia vita privata, soprattutto perché è abitudine fare del gossip sulla vita privata delle persone che lavorano in televisione e questo non mi piace. Una cosa diversa è cercare di essere utile a persone che come te hanno avuto un’esperienza traumatica, perché hanno avuto un parente con un tumore oppure sono loro stesse malate di tumore. Con un libro parli a un pubblico diverso, non a chi è in cerca del gossip, a chi è in cerca di approfondire le cose invece di fermarsi a un tweet, a un post su Facebook o a un articolo di giornale che punta tutto sul titolo perché è un acchiappaclick.
Dopo l’uscita del libro come è cambiato il rapporto con i tuoi fan? E cosa ha voluto dire per te essere uscita allo scoperto?
E’ aumentato ancora di più, se è possibile, l’affetto da parte loro, sono ancora più vicini perché io sono spesa in questo libro, ho raccontato molto della mia intimità. Mi conoscono ancora di più e mi esprimono ancora più affetto e io ne contraccambio ancora di più.
Nel tuo libro racconti tanto di te, della tua storia e della tua infanzia, e si capisce che sei sempre stata una donna dotata di una forza e una determinazione fuori dal comune. Come dici tu stessa, questo ti ha aiutata ad affrontare la malattia. Invece, cosa diresti a chi non ha la tua energia e si sente schiacciato dalla sofferenza? Dove si può trovare la forza per reagire a una circostanza drammatica come quella che hai vissuto tu?
Nello spirito di sopravvivenza che ci insegnano i bambini. Se osserviamo i bambini che abbiamo vicino, figli, nipotini, figli di amici ci accorgiamo che non si fanno abbattere da niente. Io non sono wonder woman, è vero, sono stata sempre molto indipendente fin da piccola e sono stata una bambina spericolata più che coraggiosa, che si buttava nelle cose, e i bambini ci insegnano esattamente questo. Ci sono bambini che hanno perso la mamma e hanno dovuto affrontare qualcosa che è impensabile, tragico, che sarebbe difficile da affrontare anche per un adulto. Eppure i bambini vanno avanti, crescono con zie, nonni, amici. Lo spirito di sopravvivenza lo dobbiamo imparare da loro.
Quando è uscito il tuo libro ci sono state molte polemiche, in particolare rispetto a una frase che hai scritto sotto un tuo post su Instagram, “Il cancro è un dono”. Perché secondo te molti ti hanno accusato di banalizzare la sofferenza? Perché questa frase non è stata compresa ed ha dato così fastidio?
Può capitare che una frase venga fraintesa oppure che sia stata io a non spiegarmi bene, ma non sono rimasta offesa dalle reazioni delle persone, né accuso chi ha frainteso. Mi sembrava ovvio che non parlassi del cancro come dono perché sarei matta, chi è che vuole il cancro? Non è certo il regalo che uno può desiderare dalla vita. Le parole possono avere tanti significati e vanno anche interpretate, speravo che le persone capissero quello che volevo dire, anche perché se vai a leggere bene il mio post, non scrivo che il cancro è un dono, ma scrivo che ho provato a trasformare una grande sfiga (il cancro) in un dono.
Sei molto legata alla città di Taranto e non manchi mai di dimostrarlo. Come hanno accolto i tuoi amici tarantini l’uscita del libro?
Mi vogliono bene a prescindere dal libro, sono amici di sangue, amici di aiuto e supporto reciproco. A Taranto non c’era un reparto dove i bambini potessero fare le terapie oncologiche, dovevano andare all’ospedale di Bari con grande fatica delle famiglie e un carico in più di sofferenza e disagio. Un vero viaggio della speranza, tre ore ad andare e tre ore a tornare per fare chemioterapia. Taranto è una città piena di feriti di guerra, e la guerra si chiama Ilva. Era un dovere quello di provare ad aiutare questi bambini. E quello che ci lega è un amore profondo, a prescindere dal fatto che anche io come loro adesso abbia un cancro. Semmai questo fatto adesso ci lega ancora di più, perché si sentono più compresi, ho fatto la loro stessa esperienza. È un legame di sangue, di amore, di necessità.