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Marianna Zanetta, “Nel mio libro racconto il ruolo della donna nel Sol Levante”

Intervista all'autrice del libro "Bambini d'acqua", opera specchio sulla nostra società, sul modo che abbiamo di riassorbire la ferita, la scelta di una vita interrotta

MILANO – Antropologa, fine studiosa del Giappone e dei suoi affascinanti rituali, Marianna Zanetta ha appena pubblicato per Franco Angeli un libro molto bello che racconta con lingua poetica e metodo rigoroso i rituali dedicati all’aborto nel Giappone contemporaneo, aprendo riflessioni importanti sul ruolo della donna nel Sol Levante, sul significato che l’atto abortivo riveste in una cultura tanto distante (anche religiosamente) dalla nostra. Bambini d’acqua. I rituali Mizuko Kuyo nel Giappone contemporaneo ha il merito di fungere anche da specchio sulla nostra società, sul modo che abbiamo di riassorbire la ferita, la scelta di una vita interrotta. Laura Imai Messina, scrittrice, docente universitaria e ricercatrice residente a Tokyo, ha intervistato Marianna Zanetta per Libreriamo.

 

Cosa sono i mizuko kuyō?

Mizuko kuyo è un termine che soprattutto a partire dagli anni 70 ha iniziato a designare una serie di rituali che si compiono per i feti abortiti (sia che si parli di aborto medico che di aborto spontaneo), e in alcuni casi rari per i bimbi nati subito dopo il parto. Sono rituali che hanno diverse variazioni storiche e geografiche ma che in linea di massima si concentrano su una serie di celebrazioni (annuali, o mensili) e sull’acquisto di una statua di Jizo (una delle figure buddhiste più amate e invocate in terra giapponese) per proteggere l’anima del bambino. Diciamo che per molti versi si avvicinano ai rituali per gli antenati che si tengono tutti gli anni in Giappone, e infatti tornano con frequenza nei momenti e nei luoghi che vengono anche consacrati agli antenati (come ad esempio il Monte Osore). Ci sono alcuni elementi che hanno reso questi rituali particolarmente controversi: innanzitutto, nell’immaginario tradizionale, le anime di questi feti e dei bambini piccoli vengono interpretate come figure molto tristi intrappolate in una sorta di limbo dal quale possono sperare di uscire solo se i genitori compiono i giusti rituali commemorativi; in secondo luogo, a partire dagli anni Settanta e Ottanta questi rituali sono stati resi popolari da un’intensa opera di commercializzazione da parte di templi buddhisti, che su questa immagine triste di un’anima sola e abbandonata hanno iniziato a sovrapporre quella dello spettro vendicativo, che ritorna a fare del male ai vivi se la sua commemorazione non è portata avanti con attenzione e cura. Questi due elementi hanno per lungo tempo condizionato l’interpretazione che si è data di questi rituali, leggendoli spesso quasi esclusivamente come uno strumento di controllo sulla donna, o come una modalità di colpevolizzare la scelta dell’aborto.

 

Cosa ti ha spinto a scegliere questo argomento tra tanti?

Questa è una domanda difficile. Sono partita dallo studio della morte in Giappone, tema a me particolarmente caro, e sono arrivata allo studio dei morti inquieti in senso ampio (goryo, spiriti vendicativi, ecc.), nei quali viene solitamente fatto rientrare anche il mizuko; il mizuko infatti, come dicevo prima, è stato recentemente avvicinato alle anime degli spiriti inquieti che possono portare morte e distruzione nella società dei vivi se non propriamente onorati. Questo spirito quindi è spesso interpretato come una via di mezzo tra un muenbotoke, il morto senza legami che vaga senza meta senza raggiungere l’aldilà, e i veri e propri spiriti vendicativi, conferendogli così un carattere particolarmente inquietante. Andando più a fondo con la problematica, e con la ricerca sul campo, tuttavia, mi sono resa piano piano conto che la situazione era più delicata e sfaccettata, e che l’interpretazione dei mizuko come anime pericolose era solo un aspetto della problematica. Infatti, accanto a questo aspetto molto mediatico e molto popolare, soprattutto negli scritti occidentali, si è rivelato l’aspetto più intimo e più quotidiano di queste pratiche, che non dimentica l’amore, e che nonostante la grande intimità (ai limiti della segretezza) che avvolge il dibattito, anche una volontà di continuare a commemorare quello che viene considerato, almeno potenzialmente, un membro della famiglia. È stata proprio questa varietà di interpretazioni, queste raffigurazioni così differenti, e forse anche l’impossibilità di tracciare una linea netta tra giusto e sbagliato, che mi hanno fatto avvicinare ancora di più all’argomento, perché è stato un modo per riflettere sulle nostre abitudini, e sul modo in cui noi riflettiamo sulla questione.

 

Quanto è cambiato dall’antichità ai giorni nostri nel discorso sull’aborto in Giappone?

Un’altra domanda complessa. Inizierei dicendo che come in molte culture, tuttavia, l’aborto e l’infanticidio sono sempre stati praticati in Giappone. La figura di Jizo, che in Giappone viene considerato un bodhisattva (un essere che rinuncia all’illuminazione per salvare tutti i viventi) è il simbolo stesso di questa tradizione; soprattutto nell’era Meiji, infatti, quando l’aborto era ancora illegale, Jizo fungeva da protettore della maternità ma anche da salvatore dei feti abortiti in segreto, permettendo quindi alle donne di compiere le funzioni commemorative senza il rischio di autodenunciare il loro gesto. Quando poi l’aborto è diventato legale, Jizo ha assunto quasi esclusivamente la funzione di salvatore di queste piccole anime. Tuttavia, fino al Giappone del dopoguerra, questi riti non avevano la diffusione che hanno avuto successivamente, e non erano considerati come un insieme organico di pratiche specifiche; questo ci potrebbe dire che in effetti i sentimenti riguardo all’aborto si sono modificati con la post-modernità, e con la maggiore interferenza dei media nel dibattito pubblico.
Mi preme però sempre ricordare un elemento centrale per comprendere bene il discorso: in Giappone l’aborto è una faccenda che ha valenze molto diverse da quelle che diamo noi in Italia. La legge sull’aborto non è mai stata messa in discussione e non esistono movimenti davvero significativi che ne richiedono la cancellazione. Anche se il buddhismo considera l’aborto come un omicidio, sembra tuttavia ritenerlo una sorta di “male necessario”, e sembra predominare un atteggiamento molto pragmatico, che mette al centro il diritto della famiglia (e della donna) di pianificare il proprio futuro, soprattutto in un paese che conosce ancora poco gli altri metodi anticoncezionali (pillola e preservativo).

 

La donna e il suo corpo sono al centro di un complesso e affascinantissimo discorso che tocca la maternità, il genere. Quale è stata la parte più difficile da affrontare?

Ci sono state diverse difficoltà: la più grande di queste è stata per me il rischio di interpretare questi rituali esclusivamente come uno strumento di controllo sulla libertà sessuale della donna (elemento da non dimenticare, ma non certo il solo), e quindi di dipingere la donna come soggetto totalmente passivo all’interno delle dinamiche della società contemporanea Giapponese. Inoltre, è stato necessario ripercorrere il cammino storico che dall’era Meiji in poi ha favorito una certa interpretazione della donna legata a doppio filo con la maternità; non dobbiamo dimenticare infatti, che a partire dalla fine dell’Ottocento, e per più di un secolo la donna è stata considerata nel discorso pubblico esclusivamente come “buona moglie, madre saggia”. Il compito della donna era definito come quello di sostenere la nazione attraverso la procreazione di sudditi leali, e benché questo discorso si sia interrotto ufficialmente con la guerra, il suo impatto è ancora evidente nella situazione delle donne nel Giappone contemporaneo. Infine, bisogna ricordare la difficoltà, durante la ricerca, di affrontare un discorso così profondamente intimo che spesso non viene discusso neanche in famiglia, e di affrontarlo con delicatezza e lucidità.

Direi che in generale la grande sfida è stata restituire un’immagine che non trasformasse la donna in vittima, che ripercorresse il percorso storico della maternità, e che sottolineasse l’importanza di un’elaborazione specifica del lutto al di lù della retorica di genere.

 

Hai scelto di privilegiare le fonti scritte da occidentali per via di una loro maggiore diffusione. Tuttavia puoi dirci se vi è coincidenza tra posizioni di studiosi giapponesi e occidentali sull’interpretazione dei rituali del mizuko kuyō.

In linea di massima si, se non in alcune posizioni (come quelle di Hardacre) che hanno sottolineato solo l’aspetto commerciale e costrittivo di queste pratiche. Direi tuttavia che in Giappone il discorso ha una diffusione minore, a metà tra il delicato e il “folklorico”, e (per lo meno nel momento di inizio della stesura del libro) risulta difficile trovare un corpus di testi teorici sulla questione. Succede spesso, in effetti, che tematiche che appassionano i ricercatori stranieri siano tenute in considerazione minore nel paese di origine, e sicuramente la ricerca accademica etera (in questo caso anglofona) ha dato un contributo significativo al dibattito, pur tenendo conto delle lacune e della parzialità di alcuni lavori.

 

Laura Imai Messina

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