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“Marcovaldo” di Italo Calvino, la resistenza all’invasione del consumismo

Marcovaldo di Italo Calvino non ha ricevuto la stessa fortuna di altri suoi scritti, ma sicuramente è fra quelli più riusciti, nel quale comico e fiaba si fondono assieme alla descrizione della realtà

Di Italo Calvino, sicuramente con Pasolini fra i più grandi scrittori ed intellettuali italiani del ‘900, non c’è libro della sua vastissima, immensa e trasversale produzione, che possa non essere apprezzato. Ogni libro di Calvino è stato infatti un avvenimento letterario, ma c’è un libro in particolare, forse poco noto come altri, su cui ci piacerebbe particolarmente soffermarci con voi ed è Marcovaldo.

Un testo dicevamo, che non ha ricevuto la stessa fortuna di altri suoi scritti, ma sicuramente fra quelli più riusciti, e nel quale comico e fiaba si fondono assieme alla descrizione della realtà, per dar vita ad un vero e proprio capolavoro fiabesco della letteratura industriale.

Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, viene pubblicato nel 1963, ed è formato dall’insieme di racconti con al centro la figura del manovale Marcovaldo e tutti i membri della sua famiglia. Esili personaggi che rappresentano la resistenza della più candida umanità all’invadente invasione del consumismo. Sono infatti gli anni del boom economico italiano e del passaggio ad un’Italia in via di modernizzazione.

Così, in mezzo a una vita cittadina disumana e totalizzante nei suoi meccanismi, si dipanano le avventure del manovale Marcovaldo, come nel racconto Luna e Gnac, incentrato sulla simpatica lotta contro un’insegna pubblicitaria che di notte invade con la sua luce artificiale la mansarda in cui abita la famigliola.

In questi venti racconti disposti in una struttura che segue il succedersi delle stagioni, Marcovaldo è il protagonista di una serie di avventure bizzarre e tragicomiche, in un contesto urbano che estranea, dove la natura è ormai scomparsa. I personaggi si difendono con sincero coraggio, appoggiandosi su piccoli segni di spontanea vita naturale, stravolgendo gli oggetti del paesaggio metropolitano in mezzo ai quali sono costretti  a muoversi, usandoli in modi surreali, tentando fughe impossibili e ridicole, facendo valere gli elementari diritti dei loro corpi.

Questo libro è molto significativo all’interno della produzione narrativa di Calvino che negli anni ’50 sperimenta strade nuove tendendo ad abbandonare il neorealismo dei Sentieri dei nidi di Ragno  per abbracciare quelle in cui, al tema civile e sociale volto alla conoscenza critica della realtà italiana del dopoguerra, si unisce un aspetto stilistico sempre più fantastico e che darà vita anche alla magistrale trilogia de I nostri antenati: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959).

Marcovaldo si inserisce in questa ricerca e tenta infatti l’applicazione delle strutture della favola a una realtà cittadina, entro l’idea delle condizioni disumanizzanti di un centro abitato moderno. Sullo scorcio finale degli anni ’50 con la nuova attenzione alle forme della cultura imprenditoriale e alle prime manifestazioni del miracolo economico, Calvino abbandona i modelli dell’impegno del dopoguerra, per continuare a credere in una letteratura capace di intervenire nella realtà, ma di confrontarsi attraverso la  fantasia con il modificarsi della realtà stessa, con i suoi nuovi processi tortuosi dello sviluppo, e le trasformazioni dello stesso tessuto antropologico nazionale che avvengono mentre si afferma la civiltà di massa.

Marcovaldo, con il suo modo di essere, prova a resistere alla società dei consumi, cercando di non esserne sottomesso, ma sviluppando la propria vita interiore e fantastica, privilegiando la qualità della relazione con se stessi e con gli altri a detrimento della volontà di possedere degli oggetti, di quegli oggetti che divengono, nella società dei consumi, i possessori degli individui. Marcovaldo vive ricercando oltre i fumi grigi di questo paese freddo, con la sua allegra, semplice e colorata resistenza.

“Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza”. (“Funghi in città”).

Carlo Picca

 

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