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Luis Sepùlveda, “I romanzi devono raccontare la parte oscura della storia”

Sepùlveda ha presentato a Bookcity Milano il nuovo romanzo, "La fine della storia" (Guanda), in cui l'autore torna a fare i conti col proprio passato

MILANO – Molto spesso ci lasciamo sedurre dall’idea che le nostre azioni non abbiano conseguenze. Sono i fatti, e soprattutto il tempo, a smentirci. D’altra parte, col passato è difficile fare i conti: c’è chi vuole dimenticarlo e chi fa di tutto per conservarne una qualche memoria. La storia personale di Luis Sepùlveda è importante e lo scrittore ha avuto il coraggio di raccontarla. Una storia fatta di decisioni cruciali, di valori da difendere e di lotte feroci per la vita e la libertà. Sepùlveda ha presentato a Bookcity Milano il nuovo romanzo, “La fine della storia” (Guanda), in cui l’autore torna, come dicevamo, a fare i conti col proprio passato, per certi versi molto simile a quello del suo protagonista, Juan Belmonte, ex guerrigliero cileno che ha combattuto contro il regime di Pinochet, e che da anni ha deposto le armi. Ora vive tranquillo in una casa sul mare insieme alla moglie Verònica, che ancora non si è ripresa dalle torture subite. Ma il passato non è disposto a lasciarlo in pace.

Questo libro, “La fine della storia”, è un romanzo importante per la sua carriera di scrittore. Cosa rappresenta per lei?

Con questo libro sono tornato a una forma di scrittura che avevo iniziato a usare vent’anni fa con un romanzo che s’intitola “Un nome da torero”, nel quale per la prima volta raccontavo una grande parte della storia recente. Coprendo un arco temporale che va dal 1917 nella Russia della rivoluzione fino all’anno 2005, cerco di riassumere tutto quanto è successo in questo secolo così importante per capire il conflitto che si racconta nel romanzo. Come si può spiegare, senza la storia del Novecento, la figura di un criminale di guerra, un torturatore, che arriva dopo un lungo viaggio generazionale dalla Russia alla Croazia, dalla Croazia all’Italia, fino all’Austria e poi finalmente al Cile?Quale significato hanno questi eventi storici nella formazione di un criminale, di un assassino e di un torturatore? Per me è importante, perché ho sempre pensato che la letteratura è lo spazio naturale della memoria, la letteratura ha il ruolo di registrare tutto quello che non è registrato nella versione ufficiale della storia. Da questo punto di vista, nei libri dobbiamo raccontare la parte oscura, la parte nera, la parte che non si conosce della storia.

Lo scrittore ha quindi un ruolo fondamentale nello scegliere cosa ricordare e cosa non ricordare?

Certamente lo scrittore ha sempre il privilegio della memoria e grazie a questo privilegio sceglie cosa merita di essere ricordato. Deve stare sempre attento.

I due grandi nemici in questo romanzo sono un passato con cui Belmonte non riesce a fare i conti e un potere che sembra incontrastabile.

Certamente è così e c’è un rapporto tra il passato e questo potere che sembra così incontrastabile, perché un potere di questo genere è conseguenza diretta di un certo tipo di passato. Nel caso del Cile, un potere invincibile è la conseguenza della dittatura, di un sistema economico particolare, di tante cose che sono successe dal 1973 fino al 2000. Questo potere incontrastabile si alimenta, si nutre della forza generata da questo passato.

Arrivando a Belmonte, nel romanzo lei lo definisce un “un uomo della seconda metà del Novecento”. Ha un’identità molto ben definita l’uomo che ha vissuto durante questi cinquant’anni?

Sì, ha un’identità ben definita ed estremamente collegata alla seconda metà del Novecento, che vede l’arrivo della pace dopo la seconda guerra mondiale. ma che, allo stesso tempo, vede l’inizio di un’altra forma di guerra, la guerra fredda, e degli interessantissimi processi rivoluzionari, come la lotta per il colonialismo in Africa, la possibilità di insorgere in tanti paesi dell’America Latina, il confrontarsi col potere imperiale degli Stati Uniti d’America, la fine dei paesi socialisti dell’Europa dell’est e l’arrivo di un’esperienza diversa, che unisce il comunismo con il capitalismo, rappresentata dagli eventi accaduti in Cina. Sono anni molto convulsi, fatti di grandi cambiamenti. Non è facile definire questo periodo, ancor più con i vecchi termini classici. La prima metà del secolo scorso si poteva definire come un secolo segnato dall’arrivo di una forza emergente, che era la forza organizzata di questa gente che voleva cambiare la società e arrivare al socialismo e al comunismo. Della seconda metà non si può dare una definizione precisa, oggi, è materia di studio per gli anni a venire.

Il Novecento, dicevamo, è un secolo di grandi cambiamenti, anche tecnologici. Lei non crede tanto nella capacità della tecnologia di migliorare il mondo, non è così? A un certo punto, nel romanzo, scrive: “I bassifondi adesso si misuravano in gigabyte ma continuavano a essere bassifondi”.

Io non credo nel mito della tecnologia. Credo che possa aiutare in vari ambiti ma. quando la tecnologia si trasforma in uno strumento di controllo e si pone a uso del potere, dubito che possa portare miglioramenti nella società. Quando oggi, per esempio, sappiamo che la prima cosa che fa il nuovo Presidente dell’Unione Europea non è un discorso (come “Andiamo a migliorare la condizione di vita di tutti gli europei” o “Proviamo a risolvere il problema dei migranti”), no, la prima cosa che fa è dire che si conserveranno per cinque anni tutti i messaggi, le mail, le azioni su Facebook e Twitter, per garantire la sicurezza. In questo modo la tecnologia si trasforma in una sorta di catenaccio.

Verònica, la moglie di Belmonte, non parla perché ha vissuto momenti drammatici, così come tante persone oggi, colpite dal terremoto o dalla guerra. Dove possono queste persone trovare la forza per tirar fuori la voce?

Verònica prende l’energia da una emozionalità fortissima. Ha un forte senso della giustizia. Senza tradire il romanzo e svelare troppo, alla fine c’è un dilemma: è legittima la vendetta o bisogna lasciar il potere alla giustizia? La vendetta è facile, anche se legittima. Ciò che può salvare queste persone, come ha salvato Verònica, sono i valori, in cui dobbiamo credere per poter aver fiducia nella giustizia.

Quindi è grazie ai valori che l’uomo può cambiare lo stato?

Certamente, se qualche cambiamento è possibile è soltanto grazie ai valori, tramite i quali l’uomo può cambiare e fare in modo di evolvere lo stato attuale delle cose. Le grandi trasformazioni sociali sono state possibili grazie ai valori, che hanno spinto le persone in strada o nella lotta armata, nella speranza di poter migliorare il mondo.

 

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