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“L’impoverimento del linguaggio è un segnale allarmante”, Francesco Carofiglio

La nostra corrispondente Maria Pia Romano in dialogo con lo scrittore Francesco Carofiglio sul suo ultimo romanzo "L'estate dell'incanto"

Una storia capace di tenere il lettore incollato alle pagine, che scorrono veloci, regalando momenti di pura magia. L’estate dell’incanto, l’ultimo libro di Francesco Carofiglio, edito da Piemme, è un romanzo intenso, destinato a lasciare il segno.

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Intervista all’autore

Francesco, la tua Miranda è “travolta dalla passione violenta dell’infanzia”. Esistono ancora età così, in cui il giorno si consuma tra scorribande in bicicletta, racconti di fantasmi, esplorazioni e boschi di creature parlanti? Oppure la ferocia dell’era digitale ha fagocitato la verginità dell’immaginario?

Non sono certo di sapere cosa stia succedendo adesso. La velocità è cambiata, questo è sicuro. Ma io credo che ogni stagione abbia una strada segreta per la bellezza,  un passaggio segreto che non sta a noi scoprire. Io non sono pessimista, non ho voglia di giudicare. È vero che la comunicazione mediata attraverso i social sembrerebbe spostare l’asse delle relazioni, ma sono convinto che i ragazzi abbiano oggi tutte le capacità e la voglia di esplorare il mondo “reale”. E quindi ci saranno ancora biciclette, corse a perdifiato e boschi misteriosi.

 “La poesia, grazie a mia madre, mi ha regalato una voce da usare nel buio”: frase che s’incide sotto la pelle di chi legge. Le madri sono poesia, sempre. La memoria è un faro per chi naviga di notte?

Mi sembra di essere sempre impreparato dinanzi a domande come questa. La frase che dice Miranda a proposito della poesia e di sua madre, riguarda un rapporto molto speciale. Non sempre i rapporti madre figlia sono così fortunati. La memoria è uno strumento potente, può guidare dentro una notte buia, ma bisogna imparare ad accenderla.

Erri De Luca sosteneva che i libri sono “lettere a nessuno”. Che ne pensi? E se fossero semplicemente lettere scritte in segreto a qualcuno che conosciamo bene?

Credo che siano vere entrambe le cose. La metafora di De Luca è bella, questo rivolgersi a qualcuno che non c’è, che non esiste, è un’immagine potente. Ma anche l’altra immagine ha in sé qualcosa di misterioso che mi incuriosisce, scrivere una lettera in segreto tra le pagine che tutti potranno leggere, un messaggio che potrà rivelarsi soltanto a qualcuno, può essere un’esperienza persino catartica.

“Una specie di sospensione, una trace emotiva che mi consente di non cedere più al pianto, ricordando le cose perdute, chi è andato via. E così il senso stesso dello stare al mondo mi pare più leggero, ed effimero, quasi fossimo davvero formiche, viste dall’alto. Formiche.”: così la Miranda novantenne parla di sé, incantando il lettore. La vecchiaia è amara, eppure si può imparare ad ascoltare insieme il sentimento del tempo, genitori e figli?

La vecchiaia è faticosa per tutti, immagino. Ma non necessariamente amara. Miranda è una donna forte, brillante, anticonformista, lo è a venti, quaranta e novant’anni. Non c’è dubbio che l’esperienza dell’ascolto, dell’attenzione al mondo, sia in qualche modo salvifica. A venti, quaranta e novant’anni.

In apertura del romanzo c’è una citazione di Wislawa Szymborska, “sbrigarsi, fare in tempo a vivere”. Un’esortazione a non lasciarsi sfuggire il sole. E poi Miranda novantenne dice: “Bisognerebbe distillare ogni istante. Osservare. Catalogare le immagini per il viaggio”. C’è bisogno di un po’ di lentezza per assaporare ogni istante?

C’è bisogno di un tempo. Bisogna darselo, quel tempo. Miranda ha imparato a farlo dopo una vita infinita.

Sai far parlare Danda bambina e sai diventare Miranda novantenne, scomparendo dietro di loro meglio di quanto avrebbe saputo fare una scrittrice. Un tributo d’amore allo sfaccettato universo femminile?

Grazie, questo è un complimento che mi fa molto piacere. Ci ho lavorato a lungo, sì, nell’ascolto, prima di tutto, nel ricordo, nello studio. Ci ho lavorato anche in altro modo, come se fossi un attore che deve interpretare un ruolo. Ho fatto davvero l’attore per molti anni in teatro e oggi mi sembra che le esperienze, tutte le esperienze, che ho attraversato nella mia vita, confluiscano naturalmente nella scrittura.

 “Ho solo parole che fanno rumore.”, dice Miranda. Sono un’arma potente le parole o sono il conforto dei sognatori che si lasciano salvare dalle storie?

Le parole sono il veicolo primo della comunicazione, un bene prezioso da coltivare, da conservare. Il modo in cui le parole vengono trattate, direi maltrattate, da certa volgare comunicazione politica, per esempio, è sotto gli occhi di tutti. Svilire il senso delle parole, l’impoverimento del linguaggio, la sciatteria sistematica e programmata, sono segnali di un allarme sociale, prima ancora che culturale. In una scena surreale di Palombella rossa Nanni Moretti fa urlare al suo personaggio: le parole sono importanti. Ecco, io sono d’accordo con lui. Proprio d’accordo.

La trama

Siamo nell’estate del 1939, Miranda ha dieci anni e si appresta a vivere la stagione più bella della sua vita: la racconta ora che ha novant’anni e la sua “memoria è uno spazio bianco, che si distende e si contrae”, in un continuo e suggestivo slittamento di piani temporali, che rende unica e indimenticabile l’atmosfera che pervade la narrazione, intrisa ora di mestizia avvolgente, ora d’irresistibile ironia. Danda e sua madre vanno a passare le vacanze nella casa del burbero nonno paterno, che dipinge animali di sconcertante bellezza, chiuso nel segreto del suo studio nel quale non permette a nessuno di mettere piede. Sembra l’estate della sfrenata solarità della campagna, della foresta delle creature parlanti, del primo compagno di giochi, invece il mondo sta per “sprofondare nell’abisso”. Quel mondo, tuttavia, pare lontano e Miranda scrive lettere al suo babbo, che non si sa dove sia, mentre si lascia rapire dalla fascinazione del primo innocente innamoramento e da quel senso di incredibile stupore che accompagna le scoperte dei bambini.

 

 

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