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Francesco Carofiglio, ”Nel mio libro racconto una storia di formazione, di solitudine e di coraggio”

Il romanzo è un ''on the road'' atipico, sospeso tra due mondi, il deserto e la civiltà, la velocità e il silenzio. Così Francesco Carofiglio ci presenta ''Wok'', il suo ultimo libro...

L’autore presenta “Wok”, il suo ultimo romanzo uscito per i tipi di Piemme

MILANO – Il romanzo è un “on the road” atipico, sospeso tra due mondi, il deserto e la civiltà, la velocità e il silenzio. Così Francesco Carofiglio ci presenta “Wok”, il suo ultimo libro. Architetto, attore teatrale e, come suo fratello Gianrico, autore – oltre che di libri, anche di sceneggiature per il cinema, il teatro e la televisione –, Francesco Carofiglio narra qui la storia di un quindicenne rimasto orfano e solo al mondo. Dopo la morte della madre Alice, Wok – così si chiama il ragazzo – decide di fuggire dai servizi sociali e rapire il nonno paterno, un indiano Navajo che vive ormai rinchiuso in un ospizio, per riportarlo nella sua riserva.

Com’è nata l’idea del libro?
Come sempre in maniera piuttosto casuale. Ma hanno certamente contribuito alcuni fattori, un viaggio in America, l’incontro con alcuni nativi americani e un’immagine ricorrente che portavo con me da un pezzo. Un ragazzino rimasto solo, miracolosamente illeso in un mondo pieno di pericoli e di insidie. Il resto lo hanno fatto il caso, i viaggi, e probabilmente la musica e il cinema.

Come mai la scelta di ambientare questo suo romanzo di formazione in America? E perché ha deciso di prendere come protagonista un ragazzo appartenente a una cultura così distante dalla nostra, di origine indiane?
Per una serie di motivi che il lettore magari scoprirà, l’America, e in particolare Texas, New Mexico e Arizona, sono esattamente i luoghi adatti ad ospitare questa storia. È un “on the road” atipico, una storia di formazione, di solitudine e di coraggio. C’è il deserto e l’eco lontana di una civiltà in movimento. Mi piace pensare che questa storia sia una piccola cosa che sta in bilico tra due mondi. La velocità e il silenzio. È, di fatto, e in tutti i sensi, una storia contaminata.

Veniamo alla figura del nonno paterno – un indiano Navajo chiuso in un ospizio, che ha scelto di non parlare più da quando suo figlio, il padre di Wok, è scomparso. Da dove le si è affacciato nella sua mente questo personaggio? In che modo la sua figura è determinante per il ragazzo nel suo passaggio alla vita adulta?
I nativi americani, in particolare i navajo, parlano poco. La comunicazione tra le generazioni, nonno e nipote ad esempio, avviene molto di più attraverso alcuni gesti semplici e attraverso il silenzio. Questo mi ha affascinato molto. La comunicazione, quasi senza parole, può a volte essere più intensa e profonda. La figura del nonno di Wok, Ahiga, colui che va in guerra, è centrale nello snodo esistenziale di questo viaggio e negli sviluppi decisivi della storia personale del ragazzo.


Il romanzo esplora il genere della letteratura “on the road”, in cui il viaggio diventa metafora della vita, rito di passaggio, crescita, scoperta di sé e del mondo. Cosa rappresenta il viaggio per Wok, quale bagaglio raccoglie nel suo cammino?

Il viaggio di Wok risponde inizialmente ad un impulso di fuga, dal dolore, dalla solitudine. Ma poi prende una forma differente. Diventa una missione precisa, coraggiosa. Wok va alla ricerca di suo nonno, vuole riportarlo nella sua riserva di origine, e in un modo o nell’altro, cerca una risposta che il silenzio grave del vecchio indiano sembra custodire. Wok cerca la risposta. Questo viaggio, comunque vada a finire, cambierà la sua vita.

 

16 marzo 2013

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