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Le 10 frasi fatte più odiate dalla gente

Massimo Roscia, autore del libro "Peste e corna", ci indica quali sono le frasi fatte che la maggior parte della gente proprio non sopporta, salvo poi utilizzarle nel parlato comune

MILANO – Dopo le 30 frasi fatte più utilizzate dagli italiani, abbiamo chiesto a Massimo Roscia, insegnante ed autore del libro “Peste e corna” edito da Sperling & Kupfer, di indicarci quali sono le frasi fatte che la maggior parte della gente proprio non sopporta, salvo poi utilizzarle nel parlato comune (quindi ,trattasi di un rapporto amore-odio). Scopriamole insieme.

 

Premessa metodologica

Alcune frasi fatte, seppur consumate dalla continua reiterazione, mettono in risalto gli aspetti più umani dei parlanti e rendono i nostri mezzi espressivi ancora più diretti ed efficaci; altre, ripetute meccanicamente e logorate dall’uso, si sfibrano, si svuotano di significato, scadono nella banalità e, a lungo andare, risultano fastidiosissime. Sta a voi saperle riconoscere ed eventualmente farne un uso appropriato.

 

LEI NON SA CHI SONO IO

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Qualche anno fa la Corte di Cassazione ha stabilito che questa odiosissima espressione intimidatoria, in un contesto di alta tensione verbale, ha un contenuto in grado di limitare la libertà psichica (considerato elemento essenziale nel reato di minaccia). A meno che non si tratti di una battuta recitata da Totò o da Vittorio De Sica, c’è poco da aggiungere: simbolo di superbia e arroganza è, fra tutte le frasi fatte, probabilmente la più fastidiosa.

 

E MI RACCOMANDO: GIUDIZIO

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È la prima di una lunga serie di raccomandazioni e amorevoli ammonimenti che ogni mamma rivolge al proprio figlio. Da sempre. Questa frase di solito introduce una sequela di «Non farmi stare in pensiero»; «Non farmi fare brutta figura» (con chi?); «Copriti bene, ché fa freddo»; «Stai attento, con tutto quello che si sente in giro»; «Non accettare caramelle dagli sconosciuti, perché c’è la droga» (si faccia avanti chi ha mai trovato droga in una caramella); «Non correre» (come c’era scritto, un tempo, tra una foto in bianco e nero e un santino di Padre Pio, sulle calamite da cruscotto dell’auto); «Fai attenzione alle correnti d’aria» (manco fossimo a Norilsk, in Siberia); «Mangia, mi raccomando, mangia. Perché ultimamente ti ho visto un po’ sciupato». Ma si sa: la mamma è sempre la mamma.

 

SENZA SE E SENZA MA

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Questa locuzione assai diffusa – che una quindicina di anni fa ebbe una discreta fortuna come slogan dei movimenti pacifisti americani contro la guerra in Iraq – sta a significare “senza indugi”, “senza condizioni”, “senza mezzi termini” o “senza ammettere repliche”. Esplosa da alcuni come una raffica di mitra, ripetuta in maniera ossessiva, utilizzata spesso fuori contesto, è diventata una delle espressioni plastificate più moleste. Tra il tormento e il tormentone.

 

NON ESISTONO PIÙ LE MEZZE STAGIONI

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Ormai passiamo dall’allarme  siccità alle bombe d’acqua, dal caldo torrido (con mezza Italia contrassegnata dal bollino rosso) al freddo polare (con precipitazioni nevose anche a bassa quota), dal Bacio infuocato di Giuda alle sciabolate artiche (che sono cosa diversa dalle sciabolate morbide di Piccinini). Il clima è impazzito, ma siamo impazziti anche noi (perennemente incollati al telefonino, ossessionati dal meteo, assaliti dall’ansia di voler conoscere il futuro e controllare l’incontrollabile) e sono impazziti anche i meteorologi che, con toni allarmistici e catastrofistici, ci spaventano con cicloni e anticicloni, emergenze caldo, emergenze freddo (tra un po’ inventeranno anche le primaverili emergenze tiepido e le autunnali emergenze freschetto). Piove, esce il sole, fa freddo, no fa caldo. Ormai le giornate si annunciano sempre all’insegna dell’estrema variabilità. E in fondo è vero perché non esistono più le mezze stagioni.

 

FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

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La diabolica antinomia è ormai più contagiosa e letale della febbre spagnola. Non c’è ristorante che non proponga una cucina in equilibrio «fra tradizione e innovazione»; non c’è artigiano che non lavori manufatti «fra tradizione e innovazione»; non c’è impresa che non si contraddistingua per una filosofia aziendale basata sull’incontro «fra tradizione e innovazione»; non c’è località che non offra ai visitatori un’indimenticabile esperienza di viaggio «fra tradizione e innovazione». Non mi credete? Provate a fare una ricerca su Google.

 

UNA VOLTA QUI ERA TUTTA CAMPAGNA

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«Una volta qui era tutta campagna» (anche se, pensandoci bene, quattro miliardi di anni fa il pianeta Terra era tutta campagna) è una delle frasi fatte amarcord, quelle appartenenti alla grande famiglia di «Ai tempi miei…» («Ai tempi miei si poteva uscire tranquilli la sera», «Ai tempi miei si poteva dormire con la porta aperta» e «Ai tempi miei ci si divertiva con niente»). Appartengono alla sottofamiglia nostalgico-bucolica le varie «La verdura di una volta aveva tutto un altro sapore»; «I pomodori sapevano di pomodori» (così come i peperoni sapevano di peperoni e le melanzane sapevano di melanzane); «Una volta potevi cogliere una mela dall’albero e mangiarla senza nemmeno sciacquarla»; «Chissà cosa ci mettono dentro adesso»; «Con i tempi che corrono, non ci si può fidare più di nessuno»; «Già, vatti a fidare.»

 

NELLA SPLENDIDA CORNICE

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Non c’è mostra di pittura, rassegna enogastronomica,  festival, concerto, gara sportiva, manifestazione, cerimonia o altro evento che non si sia tenuto o che non si terrà “nella splendida cornice” del castello X, della villa Y o del ristorante Z di una più o meno ridente località. Ormai la splendida cornice – che si alterna all’«esclusiva location» – incornicia anche i siti industriali dismessi, gli aridi parcheggi in cemento, i capannoni abbandonati, le stalle, le discariche abusive e i bagni pubblici.

 

A MIO MODESTISSIMO PARERE

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Ognuno, per carità, è libero di esprimersi come meglio crede ma, in un mondo in cui ormai tutti abbiamo la presunzione di sapere tutto di tutto, esordire dicendo «a mio modestissimo parere» offre il destro al nostro interlocutore per chiederci (e la domanda è quanto mai legittima): «Ma se tu stesso qualifichi come modestissimo il tuo parere, che [CENSURA] parli a fa’?».

 

SONO SEMPRE I MIGLIORI QUELLI CHE SE NE VANNO

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Premesso che, come scriveva Jorge Louis Borges “La morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”, io preferisco scherzarci sopra. E il pretesto me lo offre la notizia della prematura scomparsa del cavalier Tizio, “gran brava persona” (una volta morti diventano tutti persone eccezionali anche quelli che si sono sempre comportati da emerite teste di [CENSURA]), uomo generoso, marito e padre amorevole, lavoratore indefesso, tutto casa e chiesa, amico sincero, compagno di mille avventure, venuto a mancare alla “tenera età” di anni novantotto. E parte il disco: «È stato un duro colpo per tutti»; «E chi se lo aspettava»; «Un fulmine a ciel sereno»; «Che peccato! Era una così brava persona»; «Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno» (eccola qua); «Aveva tutta la vita davanti» (a novantott’anni?); «In fondo, ha finito di soffrire»; «Siamo nati per soffrire»; «Siamo tutti appesi a un filo»; «Siamo tutti di passaggio»; «Oggi ci sei…»; «Prima o poi arriva per tutti». Poi, meglio poi.

 

TOLLERANZA ZERO

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Questa espressione fa la sua prima timida comparsa in un programma di contrasto alla criminalità varato dallo Stato del New Jersey nel 1973, per poi essere ripresa, in virtù della sua straordinaria efficacia mediatica, da Rudolph Giuliani, sindaco di New York dal 1994 al 2001, per indicare la lotta al crimine basata sull’applicazione di pene più severe anche per i reati più lievi. In Italia l’espressione viene utilizzata ormai da tempo, con disinvoltura e molteplici accezioni, in diversi ambiti: tolleranza zero contro la microcriminalità, la droga, l’immigrazione clandestina, il lavoro nero, l’accattonaggio, la prostituzione, l’uso del cellulare mentre si è alla guida, il fumo, le recensioni mendaci, i furbetti del cartellino. Io aggiungerei tolleranza zero contro le catene di sant’Antonio, i maleducati, quelli che in treno si tolgono le scarpe, quelli che pubblicano foto di piedi su Facebook (a volte sono gli stessi che si sono tolti le scarpe in treno), quelli che, contro la tua volontà, ti iscrivono a gruppi su Facebook e su WhatsApp, che non ti rivolgono mai la parola ma che, tre volte l’anno, si sentono in dovere di domandarti: «Che fai a Capodanno?», «Che fai a Pasquetta?», «Che fai a Ferragosto?» e tutti quelli che dicono «senza se e senza ma».

 

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