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“Il vizio della solitudine” di Montanari, il complesso rapporto fra legge e giustizia

L’ultimo romanzo di Raul Montanari, “Il vizio della solitudine”, è incentrato sul rapporto conflittuale fra legge e giustizia. Ecco l'intervista all'autore

L’ultimo romanzo di Raul Montanari, “Il vizio della solitudine”, ed. Baldini e Castoldi, dal 6 maggio nelle librerie, è incentrato sul rapporto conflittuale fra legge e giustizia: tema, quest’ultimo, sviscerato da filosofi, filosofi del diritto e letterati di ogni tempo, dai tragici greci a Friedrich Dürrenmatt. Il protagonista, Ennio Guarneri, è un ex poliziotto che non si rassegna al fatto che non sempre le vittime del crimine ottengono giustizia. Rosalia Messina ha intervistato l’autore per Libreriamo.

Ciao, Raul, ho da poco ultimato la lettura del tuo ultimo romanzo, Il vizio della solitudine. Sono felice di poterne discorrere con te. Di fronte a un nuovo romanzo, chi commenta o recensisce cerca subito di individuare con formule semplificanti, che devono far presa sul pubblico, di cosa si parla. Nel caso di questa tua ultima opera, è fin troppo facile dire che parla della solitudine, che è la storia di un ex poliziotto, che il protagonista vive in modo conflittuale il rapporto tra legge e giustizia: ed è proprio su questo conflitto che vorrei chiederti qualche riflessione.

Sai, mi è sempre parso che si parli in modo superficiale di questo conflitto che investe la vita di tutti noi non solo a livello etico ma proprio in pratica, nelle piccole cose di ogni giorno. La legge è come una coperta troppo corta: non arriva mai a coprire tutto il campo della giustizia, non riesce a definire il giusto e l’ingiusto, né a garantire allo stesso modo le vittime e i colpevoli.

Guarneri ha evidentemente una vocazione da giustiziere che esprime, quando è nella polizia, formando con due colleghi un commando che interviene là dove la “coperta” ha lasciato indifesa una vittima o ha risparmiato un colpevole. Una curiosità: quasi tutti gli aneddoti raccontati nel libro (e ce ne sono molti, tragici o divertenti) sono veri. Lo sono anche quello del ricattatore e quello dello stalker, tipici casi di tentazione per una giustizia “fai da te”.

Ennio si gioca la carriera e il lavoro per esercitare questo tipo di giustizia, il che significa che ci crede. Quando però rimane coinvolto nelle trame di Han, un’organizzazione segreta di ex militari nigeriani che vanno a caccia di scafisti sul suolo italiano, è costretto a mettere alla prova fino in fondo questa sua vocazione. Perché ora quello che deve fare non è più distribuire qualche schiaffo, ma uccidere.

Mi rendo conto del fatto che lo sbirro cattivo, che viene meno ai suoi doveri e abusa dei suoi poteri per proprio profitto, è presente in un’infinità di libri e di opere cinematografiche, ma Ennio Guarneri è diverso, non ambisce a conquistare vantaggi personali, ricchezza, potere.

Sì, Guarneri è disinteressato a tutto. All’inizio del libro sembra quasi un uomo che si sia ritirato anzitempo dalla vita per chiudersi nella solitudine come in una fortezza. Si apre il primo varco quando scopriamo che va a lezione dalla sua vecchia maestra delle elementari.

Sebbene lui razionalizzi questa strana iniziativa con un ragionamento convincente, è evidente che va da lei anche per soddisfare due bisogni profondi: riconnettersi con il nocciolo tenero, originario, della propria personalità, e avere vicino a sé una donna, seppure anziana. Sottoporsi allo sguardo e anche al giudizio di una donna, perché, come lui stesso dice, “tutto quello che faccio ha senso solo se è riflesso negli occhi di una donna, altrimenti è come se cadesse in un pozzo e si perdesse”.

Poi arrivano, in contemporanea, la ragazza che vende “Lotta comunista” e l’omicidio sul fiume, che innesca il meccanismo infernale in cui Ennio viene coinvolto. Quanto al suo lato oscuro, è rappresentato ironicamente dal nickname che gli viene assegnato per un incontro sotto copertura, destinato a un esito sanguinoso: mister Hyde.

 La Milano in cui è ambientata la trama de “Il vizio della solitudine” è descritta dal protagonista con affetto e con un linguaggio che a volte diventa poetico. Milano, la tua Milano, è per te una fonte di ispirazione? I luoghi che frequenti ti suggeriscono spunti che poi diventano storie?

Certo. La mia Milano è proprio quella descritta in questo libro: è la periferia nord, dove sono cresciuto e ho vissuto con la mia famiglia fino ai 26 anni. Il quartiere ha un nome davvero poetico, Pratocentenaro. È una periferia modesta (non ci sono ville o palazzi spettacolari, solo condomini) ma ordinata e dignitosa, tipica zona residenziale impiegatizia, microborghese.

Eppure, una mattina di alcuni anni fa un uomo uscì di casa, prese un martello in un cantiere aperto e cominciò ad assalire tutti quelli che incontrava, finché non lo fermarono. L’episodio mi impressionò moltissimo: leggevo sui giornali i nomi delle vie che l’uomo aveva percorso ed erano quelle dove giocavo con i miei amici da piccolo, mi vedevo davanti agli occhi ogni passo che l’assassino aveva fatto.

Era come se un pesce mostruoso avesse rotto la superficie di un tranquillo specchio d’acqua, a dimostrazione che il male può esplodere ovunque.

Oltre al protagonista, tutti i personaggi principali erano già presenti quando hai cominciato a progettare questo romanzo? 

Ti parrà strano ma la trama è stata costruita a partire dalla ragazza che vende “Lotta comunista”, perché è una persona reale. Gira davvero per Milano questa bellissima giovane idealista che con i suoi compagni vende porta a porta il giornale, e ho scoperto che la conoscono in tanti, è un piccolo mito!

Ho parlato spesso con lei e mentre la guardavo immaginavo cosa potesse rappresentare, agli occhi di un uomo solo, questa epifania della femminilità che viene letteralmente a bussare alla tua porta, come il destino. Il resto è venuto da lì.

Il mitico Ric Velardi, con la sua saggezza, la sua durezza, la sua profonda comprensione dell’animo umano, la sua capacità organizzativa, era già nell’idea embrionale della trama?

Quanto a Velardi, non me ne libererò mai: questo è il sesto romanzo in cui compare. Non è un vero personaggio seriale perché non è mai il primattore. Tempo fa un editore mi ha proposto di riunire le storie in cui compare sotto un titolo, qualcosa come Le avventure di Ric Velardi, ma è impossibile. Non sono le avventure di Ric Velardi, sono le avventure con Ric Velardi.

Nei miei libri si entra nella storia attraverso lo sguardo e le parole del protagonista, di volta in volta diverso: uno psicologo, un insegnante, un ragazzo disoccupato, qui un ex poliziotto… Si rimane impigliati con lui nell’ingranaggio noir, e a un certo punto compare questo diabolus ex machina, questo strano uomo ridicolo e sinistro al tempo stesso.

Simboleggia tante cose tutte insieme ma quello che conta è che sia un personaggio credibile, nonostante la sua eccentricità. Infatti è amatissimo.

La solitudine è evocata già dal titolo. Ma, oltre alla solitudine di Ennio Guarneri, a me sembra di scorgere una serie di solitudini, forse tutte simili, forse tutte diverse. Lo stesso Velardi ha tutta l’aria di avere la solitudine come unica compagna. Anche la vecchia maestra di Guarneri, Luigina Girelli, è una donna che vive da sola. Per tutti loro possiamo dire che la solitudine è un vizio, una scelta forse irreversibile?

Hai ragione: tutti i personaggi importanti del libro vivono soli, perfino le vittime delle esecuzioni in cui Ennio Guarneri viene coinvolto. Anche la ragazza di “Lotta comunista” dice di essersi sfidanzata da poco, sebbene viva ancora in famiglia. Credo che proprio Velardi sia quello che della solitudine ha fatto il suo ambiente naturale, l’ecosistema misterioso da cui partono le sue sortite imprevedibili nel mondo.

La fortezza di Guarneri appare invece vulnerabile, come quella degli altri. Aristotele diceva che l’uomo è un “animale sociale” e non a caso l’isolamento è la punizione più temuta in carcere. Nell’epigrafe al racconto L’uomo della folla di Edgar Allan Poe si legge: “Ah, che gran disgrazia non poter essere soli!”.

Nella tua scrittura trovo straordinario l’equilibrio fra showing e telling, fra le scene d’azione e i momenti in cui dominano i pensieri del protagonista, che in questo caso è anche il narratore della storia. Questo dosaggio perfetto è presente fin dalla prima stesura o ci arrivi per approssimazioni successive?

Mi viene proprio naturale. Credo che dipenda dalla mia formazione come lettore, basata su grandi narrazioni “classiche” fra Ottocento e Novecento, i cui autori esercitavano un meraviglioso artigianato letterario proprio nella perfetta scansione fra ciò che va rappresentato e ciò che invece si deve riassumere.

Penso anch’io che in fondo un romanzo sia una sequenza di scene, raccordate fra loro da riflessioni, digressioni, riassunti di fatti; ma la scena, composta da azione e dialogo, rimane la parte più nobile del tessuto narrativo. Non a caso quando leggiamo in fretta possiamo saltare pagine intere di un libro, ma non saltiamo mai i dialoghi.

Gli scrittori, infatti, sono anche appassionati lettori. Cosa sta leggendo, in questo periodo, Raul Montanari?

Sul comodino ho “Il maestro di Vigevano” di Lucio Mastronardi. È bellissimo andare alla ricerca di questi gioielli della narrativa italiana. Direi addirittura che è una fortuna non aver tempo di leggerli tutti da ragazzi, così rimangono in attesa di sorprenderci da adulti.

Sei già al lavoro sul tuo prossimo libro? C’è qualcosa che ti andrebbe di rivelare in proposito?

Di solito, quando pubblico un libro ho già scritto la prima stesura del successivo. Stavolta non è così perché volevo dare anch’io un contributo al racconto dell’incubo che stiamo tutti vivendo, ma mi scoraggia che non si sappia ancora se rappresentarlo come un fatto del presente o che presto apparterrà al passato – come tutti speriamo.

Considera anche che in media un libro esce almeno un anno dopo essere stato scritto in prima battuta, per cui è difficile immaginare adesso con che occhi leggeremo, o leggeremmo, una storia del genere fra un anno, un anno e mezzo. C’è tempo per pensarci, comunque.

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