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Conversazione con Raul Montanari

Raul Montanari − traduttore di autori come Poe, Stevenson, Wilde e di classici latini e greci come Tieste di Seneca, Edipo Re e Edipo a Colono di Sofocle, direttore, a  Milano, di una prestigiosa scuola di scrittura creativa − è autore di numerosi romanzi, tra i quali, per citare i più recenti, Il tempo dell’innocenza (Baldini & Castoldi 2012, 2014), Il regno degli amici (Einaudi 2015, vincitore del Premio Vigevano 2015), Sempre più vicino (Baldini & Castoldi 2017).

 

Ciao, Raul, ci ritroviamo a parlare di un tuo romanzo.  È la terza volta che ti intervisto: alla fine del 2014 abbiamo chiacchierato degli scopi della narrativa, di post-noir, della scuola di scrittura, delle tue letture. Nel 2015, a maggio, abbiamo conversato sul tuo romanzo Il regno degli amici, allora da poco pubblicato. Adesso, dopo essere stata in compagnia di Sempre più vicino durante l’ultimo fine settimana, ti faccio tre domande su questo tuo ultimo libro, del quale mi hanno colpito molto alcune cose. Innanzitutto il ritratto di una generazione priva di punti di riferimento, con genitori non autorevoli dai quali mutuare valori e in fondo nemmeno degni di una vera ribellione, per altro se non impedita almeno fortemente ostacolata dalla difficoltà di raggiungere l’indipendenza economica. In questo forzato perpetuarsi dei cordoni ombelicali, la rivolta si riduce ai comportamenti autolesionisti, come per Simon bere da farsi scoppiare il fegato. A me questo ritratto sembra collocarsi, in un’ideale galleria, accanto a un altro formidabile ritratto generazionale, quello incarnato dai protagonisti de Il regno degli amici. Forse mi sbaglio, ma nei tuoi romanzi spesso la relazione tra vecchi e giovani, tra padri e figli, l’eterno conflitto tra sistemi di valori vecchi (o mancanza di essi) e nuovi assume un grande rilievo e orienta le scelte più o meno sciagurate dei personaggi; è così?   

Certo, è così.

Abbiamo imparato dai tragici greci (ma anche dall’Odissea) quello che Freud si è poi incaricato di spiegarci meglio, ossia che per la costruzione della nostra costellazione psichica la famiglia è tutto.

Io sono convinto che non esci mai da lì, da quella rete di relazioni che è la tua prima interfaccia col mondo. Superare la dipendenza emotiva dalla famiglia, ammazzare simbolicamente il padre (e anche la mamma, già che ci siamo), è necessario ma in fondo anche illusorio, perché non riesci mai a farlo completamente.

Valerio, Simon, Elena, i quasi trentenni del romanzo sono i rappresentanti di una generazione che non ha potuto nemmeno coltivare l’illusione di questo superamento. Anzitutto per motivi economici, dato che tutti in qualche modo dipendono dai genitori e sono ricattabili sia materialmente sia psicologicamente. Ma soprattutto perché vivono in un orizzonte sociale disperato, in cui la sensazione dominante non è la conquista, l’espansione, ma l’arroccamento difensivo e il si salvi chi può.

Il confronto fra Valerio e suo padre è decisivo da questo punto di vista: il padre è un quasi settantenne che incarna una pulsione vitale che in Valerio è assente. Questa pulsione ha un risvolto grottesco nella fame sessuale insaziabile del vecchio, che gli procura un sacco di guai, e un risvolto invece positivo nella sua audacia imprenditoriale, che guarda caso si esprime proprio nel campo dell’informatica: il padre di Valerio ignora il “digital divide”, si erge come un titano al di sopra dei vincoli della sua generazione e fa proprio il lavoro che potrebbe fare un ragazzo dell’età di suo figlio. Quindi sul piano simbolico Valerio viene sconfitto dal padre in tutti i campi.

Il romanzo è anche il racconto di una parabola di accettazione reciproca e riconciliazione fra i due: il padre finirà per ammettere che gli insuccessi di Valerio non dipendono dalle qualità personali del figlio ma da questo orizzonte generazionale strozzato; Valerio, quando un colpo di fortuna muterà il suo status, fingerà che le cose stiano sempre come prima, proprio per non alterare l’equilibrio che lui e il padre sono riusciti a costruire.

 

Grande spazio per i sentimenti nel tuo romanzo. L’amicizia, innanzitutto, l’amore, con le loro ombre, con il non detto, con le amare scoperte. Relazioni che sembrano indistruttibili e forse non lo sono, o forse chissà, in fondo lo sono davvero. Questi aspetti si mescolano efficacemente all’azione, allo snodarsi degli eventi. Né la trama né l’introspezione prendono il sopravvento, ma si fondono perfettamente. Le riflessioni dei personaggi, le loro sensazioni procedono mentre l’intreccio si sviluppa e si arricchisce di capitolo in capitolo. È questo il futuro del romanzo? Il superamento degli steccati fra i generi?

Il futuro è l’ibridazione, in tutti i campi (anche in quello etnico, ovviamente). C’è però da dire che tutti gli sforzi che ho fatto finora per realizzare, come altri, questo meticciato dei generi, se sono riusciti sul piano creativo, in Italia non hanno avuto una risposta soddisfacente da parte della critica e, in realtà, nemmeno dell’editoria, per non parlare di quello che succede sugli scaffali delle librerie.

I generi sono molto comodi per chi deve vendere un prodotto, perché permettono al venditore di instaurare un rapporto franco e in qualche modo anche onesto con il compratore: “Non ti farò cattive sorprese, avrai esattamente quello che ti aspetti da me; vuoi brividi? Ecco il thriller. Una storia d’amore contrastato ma a lieto fine? Eccola. Un’avventura ambientata in altri mondi o semplicemente in un’altra epoca? Servito.” A soffrire, nel mezzo, è il creatore, quando non accetta di sottomettersi a questa logica compartimentale.

È stato anche il mio caso, dato che ho sempre cercato come tu dici giustamente di coniugare il fascino trascinante della trama con il tentativo di catturare il mondo. Sono i due compiti principali del romanzo, ed è un peccato specializzarsi solo in uno dei due.

Io cerco di scrivere libri che abbiano una leggibilità altissima, perché considero la noia del lettore il mio primo nemico; ma ho anche uno sguardo sul mondo che voglio condividere con lui, senza fargli lezioni ma lasciando che esca spontaneamente dalla narrazione.

 

Mi pare di ricordare che a Ric Velardi, personaggio (che ricompare più volte nelle tue storie) non secondario di Sempre più vicino, tu sia particolarmente affezionato. Anche io ho simpatia per l’etica particolare del detective Velardi, per i suoi tic e le sue manie. Che cosa ti lega a questa originale figura di investigatore?

Velardi è un personaggio amatissimo anche dai miei colleghi: per esempio Tiziano Scarpa, di cui si può dire tutto tranne che sia un cultore della narrativa di genere, ha una vera passione per lui!

La caratteristica narrativa di Velardi è il fatto che lui non è e non sarà mai il protagonista delle storie: compare a un certo punto e imprime alla trama una svolta. È un deus ex machina, naturalmente non meccanico ma molto caratterizzato appunto dalle sue bizzarrie. È il vicino di casa che tutti vorremmo avere, lo stratega che si tiene in un angolo ma quando parla cattura l’attenzione di tutti, l’uomo che prende le decisioni quando noi siamo esausti o inerti.

Come mi è già capitato di dire, visto che dal nostro orizzonte pare scomparso il Deus sine machina, tanto vale accettare il deus ex machina: visto che non abbiamo più un Padre, accontentiamoci di un fratello maggiore più furbo di noi. E poi è così simpatico, questo Velardi! Anche perché dietro la sua efficienza si nascondono cicatrici personali profonde, svelate in parte nel precedente romanzo Il regno degli amici, in cui lo vediamo sedicenne.

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