Tra la via Emilia e il West, per dirla con le sue canzoni, si trova Pàvana, un paesino sull’Appennino tosco-emiliano che si raggiunge salendo una strada irta e che – scherza seriosamente Francesco Guccini nell’incontro stampa a Pordenonelegge – dovrebbe diventare capoluogo di provincia, ma che invece si avvia a scomparire. Dai 7000 abitanti dell’infanzia del cantautore ne rimangono poco più di 1000 ed è questa l’occasione narrativa di Tralummescuro, in uscita per Giunti editore, che completa idealmente il percorso iniziato con Cròniche epafàniche. Il titolo rimanda a quel momento di passaggio tra la luce e la notte – un’ora che è di tutti, un’ora che è pace e presagio – per un libro di ricordi e malinconia, di persone e cose del tempo perduto, in un paese disabitato, dove i tetti delle case non fumano più.
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Alla scoperta delle proprie radici
È a Pàvana che il cantautore è tornato a vivere in questi ultimi anni, dopo l’adolescenza, la giovinezza e la maturità vissute tra quella Modena “piccola città, bastardo posto” e la sua Bologna. Sono passati anni da quando ha toccato una chitarra, dalle osterie bolognesi, appunto, e oggi la sua vita è scrivere, leggere e farsi leggere libri, stare con gli amici del Paese, insomma tornare a una dimensione più piccola e più tranquilla. La trilogia composta da Cròniche Epafàniche, sui suoi primi anni a Pàvana, Vacca d’un cane sugli anni modenesi e Cittanova Blues su Bologna, si completa ora con Tralummescuro e la morte dell’Appennino: “nel giro di questi 50 anni – spiega l’autore – l’Appennino è morto , le case sono vuote, la gente se n’è andata e le vecchie generazioni non hanno eredi che rimangano”. Ed è anche l’occasione per riscoprire le proprie radici – la parola che forse più di tutte rappresenta il cuore della sua ispirazione artistica – che lo legano a Pàvana dove sorge il mulino di famiglia, vera Macondo appenninica ormai viva nel cuore dei lettori e radici sono quelle che sa rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l’italiano e il dialetto, come da sempre ama fare. “Il dialetto ha mille sfaccettature – spiega il cantautore- che nell’italiano si sono perse. Un vocabolo che in italiano si riconosce in un unico lemma ha molte varianti in pavanese, modenese e bolognese, il che permette una stratificazione linguistica, dal punto di vista narrativo, molto ricca ed interessante”.
Ma oggi Pàvana è ormai quasi disabitata e il narratore evoca i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all’opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo, ma proprio per questo aperto all’infinito della fantasia. Tra elegia e ballata, queste pagine sono percorse da una continua ricerca delle parole giuste per nominare ricordi, cose e persone del tempo perduto.
La memoria in un racconto senza rimpianto
La malinconia è sempre temperata dalla capacità di sorridere delle umane cose e dalla precisione con cui vengono rievocati gesti, atmosfere, vite non illustri eppure piene di significato. “Nostalgia ma non rimpianto di una stagione senza luccicare di mojito” scherza Guccini- in cui Pàvana era frequentata da turisti francesi che però bestemmiavano in dialetto e vantava cinema, balere ed un “osteria con signorine compiacenti.“. “Oggi si fa fatica a trovare il quarto per giocare a tressette”. E il rapporto con la musica? Come noto, ormai Francesco Guccini ha smesso di scrivere canzoni anni fa. Il suo ultimo album è L’ultima Thule risale al 2012 dato che ora si dedica alla scrittura di libri: “Non ascolto più musica – confessa il cantautore – figuriamoci la mia. Del resto non mi manca scrivere canzoni, perché scrivo libri, il mio sogno di bambino, ed è il mio modo di vivere nel mondo.”
Alessandra Pavan