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Da giornalista di nera a scrittore di gialli, la storia di Gigi Paoli

Gigi Paoli, in libreria con il suo romanzo d’esordio "Il Rumore della Pioggia", ci racconta come nasce il suo alter letterario ego Carlo Alberto Manchi protagonista del libro

FIRENZE – Gigi Paoli, fiorentino classe 1971, è in libreria con il suo romanzo d’esordio “Il Rumore della Pioggia“, vincitore del Premio Mazara Narrativa Opera Prima 2017, sezione “Giallo, noir, poliziesco, e Il Respiro delle anime”. Gigi Paoli è da 15 anni responsabile della cronaca giudiziaria della redazione di Firenze del quotidiano La Nazione. Il protagonista dei suoi romanzi è il giornalista Carlo Alberto Marchi che come l’autore vive assieme alla figlia teenager e che come l’autore si reca ogni giorno o quasi nel nuovo Palazzo di Giustizia di Firenze, definito come Gotham, come la città di Batman, per il suo aspetto severo e un po’ mostruoso. I romanzi ed i delitti si snodano in una Firenze dai mille segreti tra vecchi palazzi, massonerie, famiglie nobili e un giornalista che mette assieme vecchie storie e delitti recenti.

 

Perché iniziare a scrivere gialli?

Per la curiosità di vedere se ci sarei riuscito. Sono sempre stato un lettore compulsivo di gialli fin da quando ero teenager e così un giorno mi sono detto: “Vediamo se sono capace anche io”. Non so ancora se sono capace però mi sono divertito un sacco – e mi sto divertendo – a scrivere qualcosa che non sia la cronaca, come faccio da quasi trent’anni.

 

Perché la scelta di un giornalista come protagonista di una indagine?

Per tre motivi. Il primo è perché un giornalista non c’era mai stato nella narrativa di casa nostra, almeno nelle mie (limitate) conoscenze e almeno come lo intendo io, ossia non il giornalista romanzato e romantico alla “Tutti gli uomini del Presidente” o stile “Caso Spotlight”. La figura di “quel” tipo di giornalista trasportata in Italia sarebbe stata ben poco credibile. L’unico giornalista “vero” che ho letto in un libro giallo contemporaneo è un personaggio di Michael Connelly, non a caso anch’egli ex giornalista di cronaca nera del Los Angeles Times. Il secondo (e ammetto che sia un’evidente deformazione professionale) è perché io penso che bisognerebbe scrivere sempre di quel che si sa, direttamente, e quindi un giornalista di cronaca giudiziaria con la vita incasinata e che vive con una figlia teenager, beh, era una trasposizione perfetta di quel che conosco bene. Fossi stato Margherita Hack, probabilmente avrei scritto di un astrofisico. Terzo e ultimo punto: ho letto tanti gialli con un’infinita di commissari, veri o improvvisati, di avvocati, di magistrati, ma mai appunto nessuno che mostrava un giornalista di cronaca giudiziaria che ogni giorno è a contatto con la magistratura e le forze dell’ordine e, anche se talvolta non può scrivere tutto fino in fondo, ne conosce i retroscena. Ecco, ho pensato di poter offrire uno sguardo diverso, quello del cronista, che infatti non risolve ma osserva e in parte ha un suo ruolo nelle vicende che avvengono in un tribunale o una procura.

 

Perché le nostre città sono diventate da alcuni anni a questa parte lo sfondo perfetto di crimini efferati ?

Perché la placida provincia, come avviene nella realtà della cronaca, a volte nasconde molti orrori inimmaginabili. E’ il principio della polvere sotto il tappeto o, usando un paragone televisivo, la sindrome Twin Peaks. Spesso i mostri abitano alla porta accanto alla nostra e non ce ne accorgiamo neppure perché conducono una vita placida e ordinaria. Niente fa più paura di un crepa che appare su un muro perfetto. Il giallo, il delitto, l’orrore che si cela dietro l’apparente e quasi noiosa quotidianità della vita di provincia (e io nella “provincia” inserisco anche Firenze, che si dà arie di metropoli ma è poco più di un paesone dove tutti sanno tutto di tutti) è un ingrediente molto appetibile in tale contesto. Occhio però: spesso se ne abusa e si scade nel banale, da un lato, o nell’inverosimile, dall’altro. Come in cucina non è facile saper dosare gli ingredienti. In eccesso e in difetto.

 

Qual è il lato oscuro di Firenze?

Ne ha tanti. Non dimentichiamo che è la città il cui nome si lega al più feroce serial killer del nostro Paese. Prendendo in prestito il titolo di un libro di un bravissimo collega oggi scomparso, Mario Spezi, le “dolci colline di sangue” di Firenze sono una quinta ideale per un palcoscenico artisticamente maestoso in cui si può ambientare la malvagità dell’essere umano. Firenze è piccola ed è un concentrato di bellezza quasi fastidiosa, ma anche storicamente un concentrato di intrighi, di storie torbide, di contrasti, di omicidi, di delitti irrisolti. Firenze ha un lato oscuro che può essere pericolosamente attrattivo e magnetico come la sua unica bellezza.

 

Cosa si dovrebbe fare per far leggere di più?

Questa è una domanda da un milione di dollari e se avessi avuto una ricetta, l’avrei già utilizzata per il giornale. Sfortunatamente, però, una ricetta non c’è e l’argomento è di una complessità strutturale, sociale. E’ un dato di fatto che siamo il Paese europeo dove si legge di meno assieme, credo, al Portogallo. La lettura è ormai da tempo patrimonio di una élite, per lo più anziana. Lo si nota soprattutto davanti alle edicole, dove ormai entrano solo gli over 40. Nelle librerie accade invece un fenomeno singolare: ci sono tanti bambini che sfogliano libri per loro e ci sono anche i grandi.

Manca l’età intermedia, i ragazzi, che considerano la lettura una noia, un problema, perché la associano alla scuola. Ecco, secondo me è la scuola che dovrebbe gestire meglio il rapporto dei ragazzi con la lettura: il giorno che vedrò un professore di italiano invitare i proprio studenti a leggere Harry Potter e magari farci una ricerca o un tema, beh, sarà sempre troppo tardi. Il problema è in parte anche dei docenti: troppo più facile insegnare sempre le stesse cose, allo stesso modo, con metodi vecchi. Mi augurerei per le nuove generazioni professori che invitino i ragazzi a leggere libri per loro stessi e non per l’ottocentesco pianeta scuola. Meno Verga, più Rowling. Un paradosso, certo, anche perché so che è impossibile nonostante l’impegno delle case editrici come la mia, Giunti, che nel campo dei cosidetti “young adult” fa un lavoro encomiabile. Spero che la scuola, un giorno, riesca ad entrare nel terzo millennio e, di conseguenza, nelle teste dei nostri figli. Basterebbe poco. Basterebbe un libro. Quelli giusti, però.

 

Michele Morabito

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