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Il bellissimo discorso sui nonni di José Saramago

"Credo che senza di loro non sarei la persona che sono oggi; senza di essi forse la mia vita non sarebbe riuscita a diventare più di un inesatto abbozzo", le bellissime parole di Saramago rivolte ai suoi nonni

Il 10 dicembre del 1998, lo scrittore José Saramago riceveva il premio Nobel per la letteratura. Primo autore portoghese nella storia del premio, Saramago pronunciò davanti all’Accademia Reale di Svezia un discorso meraviglioso, in ricordo dei suoi nonni, che egli definiva come le persone più sagge che avesse mai incontrato. Entrambi analfabeti, i nonni non aveva dato al piccolo José libri, né arte, né musica, ma gli avevano trasmesso qualcosa di altrettanto prezioso. Uno sguardo sul mondo e sulla vita, che aveva a sua volta forgiato lo sguardo di Saramago, imprimendogli un segno indelebile e luminoso.

Credo che senza di loro non sarei la persona che sono oggi; senza di essi forse la mia vita non sarebbe riuscita a diventare più di un inesatto abbozzo, una promessa come tante altre che sono rimaste solo promesse, l’esistenza di un uomo che forse potrebbe essere stato ma che alla fine non fosse riuscito ad essere.

Noi, in occasione della Giornata Internazionale dei Nonni, vi proponiamo i passi più belli del discorso di Saramago.

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Il discorso di Saramago dedicato ai nonni

Nel giorno in cui Saramago riceveva il massimo riconoscimento esistente per uno scrittore, il suo pensiero volò alle persone che lo avevano generato, che lo avevano reso la persona che era. Perché, come disse durante il suo lungo e bellissimo discorso, per capire chi siamo e di quale materia siamo fatti, non possiamo che tornare alle origini, percorrere a ritroso la storia della nostra vita per riconoscerci nei gesti di chi ci ha preceduto. Quello di Saramago era sì un omaggio ai suoi nonni, ma era anche un omaggio alla storia, alla tradizione che ci ha consegnati al presente per quello che siamo.

L’uomo più saggio che ho conosciuto non sapeva né leggere né scrivere. Alle quattro della mattina, quando la promessa di un nuovo giorno ancora indugiava sulla terra di Francia, egli si alzava dal suo giaciglio e andava nel campo, per dare da mangiare alla mezza dozzina di maiali la cui fertilità nutriva lui e sua moglie. I genitori di mia madre vivevano in questa povertà, sulla piccola prole dei maiali che dopo lo svezzamento veniva venduta ai vicini nel nostro villaggio di Azinhaga nella provincia del Ribatejo. I loro nomi erano Jerónimo Meirinho e Josefa Caixinha ed erano entrambi analfabeti.

Durante l’inverno quando il freddo della notte cresceva fino al punto di gelare l’acqua nei recipienti all’interno della casa, essi andavano nel porcile e prendevano i maialini più gracili e li portavano nel loro letto. Sotto la rozza coperta, il calore umano salvava i piccoli animali dal congelamento e li strappava a una morte certa. Sebbene i due fossero persone gentili, non era un’anima compassionevole che li induceva ad agire in quel modo: quello che li interessava, senza sentimentalismo o retorica, era proteggere il loro pane quotidiano, come è naturale per persone che, per mantenersi la vita, non pensano ad altro che all’indispensabile.

E qualche volta, nelle notti calde d’estate, dopo cena, mio nonno mi diceva: “José, questa notte andiamo a dormire, tutti e due, sotto il fico”. C’erano altri due alberi di fico, ma quello, certamente perché era il più grande, perché era il più vecchio, era da sempre per tutti nella casa, il fico. 

Quando il sonno tardava, la notte era popolata da storie ed eventi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni, terrori, episodi singolari, antiche morti, zuffe con bastoni e pietre, parole dei nostri antenati, un’instancabile chiacchiera di memorie che mi tenevano sveglio, e nello stesso tempo mi cullavano.

Non potevo sapere se egli smetteva di parlare quando si accorgeva che ero caduto
addormentato, o se continuava a raccontare per non lasciare a mezzo la risposta che io invariabilmente facevo nelle pause più lunghe che egli appositamente metteva nel racconto: “E poi?”. Forse egli ripeteva le storie per se stesso, come per non dimenticarle, o anche per arricchirle con nuovi dettagli.

A quell’età, come noi tutti facciamo, non c’è bisogno di dire che immaginavo che mio nonno Jerónimo fosse padrone di tutte le conoscenze del mondo

Quando alle prime luci dell’alba, il canto degli uccelli mi svegliava… Mia nonna, già in piedi prima di mio nonno, mi metteva davanti una grande scodella di caffè con pezzi di pane e mi chiedeva se avevo dormito bene. Se le raccontavo qualche brutto sogno che proveniva dalle storie del nonno, ella sempre mi rassicurava: “Non farci caso, nei sogni non c’è nulla di solido”.

Fu solo molti anni dopo, quando mio nonno se ne andò da questo mondo e io ero un già un uomo fatto, che finalmente giunsi a comprendere che mia nonna, dopo tutto, credeva anche lei nei sogni.Non ci poteva essere altra ragione perché, sedendo una sera davanti alla porta della sua povera casa dove ora ella vive da sola, indicando le più grandi e le più piccole stelle sopra la sua testa, dicesse queste parole: “Il mondo è così bello, ed è un peccato che si debba morire”.

Non diceva paura della morte, ma peccato di morire, come se la sua dura vita di incessante lavoro, in quel momento vicino alla fine, stesse ricevendo la grazia di un supremo e ultimo addio, la consolazione della bellezza rivelata. Era seduta davanti alla porta di una casa come nessun’altra posso immaginare nel mondo, perché in essa viveva gente che poteva dormire con i maialini come se fossero figli propri, gente che era molto dispiaciuta di uscire dalla vita proprio perché il mondo è bello;

e questo era Jerónimo, mio nonno, pastore di porci e raccontatore di favole, che sentendo arrivare la morte, andò a dire addio agli alberi nella corte, uno per uno, abbracciandoli e piangendo perché sapeva che non li avrebbe più rivisti

Molti anni dopo, scrivendo per la prima volta su mio nonno Jerónimo e mia nonna Josefa, fui alla fine consapevole che stavo trasformando delle persone comuni quali esse erano in personaggi letterari, e che questo probabilmente era un modo di non dimenticarli, disegnando e ridisegnando il loro volti con la matita che sempre cambia la memoria, colorando e illuminando la monotonia di una routine quotidiana bassa e priva di orizzonte, quasi per creare, sull’instabile mappa della memoria, una realtà sovrannaturale del paese nel quale decisero di vivere.

Ora posso vedere con chiarezza coloro che sono stati i miei maestri di vita, quelli che più intensamente mi hanno insegnato il duro lavoro di vivere…

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