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Daniele Cobianchi, ”Nel mio libro, l’amore è la forza che spinge a superare le proprie fragilità”

Di fronte ai grandi dolori della vita, bisognerebbe avere il tempo di fermarsi per metabolizzarli e dar loro un senso, facendone un motore di cambiamento. È quello che accade a William Orsini, il protagonista del nuovo romanzo di Daniele Cobianchi, ''Dormivo con i guanti di pelle''...

L’autore ci presenta “Dormivo con i guanti di pelle”, il suo romanzo uscito di recente per Mondadori

MILANO – Di fronte ai grandi dolori della vita, bisognerebbe avere il tempo di fermarsi per metabolizzarli e dar loro un senso, facendone un motore di cambiamento. È quello che accade a William Orsini, il protagonista del nuovo romanzo di Daniele Cobianchi, “Dormivo con i guanti di pelle”. Dopo aver lavorato diversi anni nel campo della comunicazione e aver ricoperto il ruolo di ad di un’importante agenzia pubblicitaria, Cobianchi ha maturato l’idea di dedicarsi alla scrittura. In questo suo secondo romanzo, l’autore racconta la storia di un pianista, William Orsini, che in seguito a un grande dolore inizia a indossare giorno e notte guanti di pelle nera. La sua vita da allora cambia drasticamente, impedendogli anche di suonare.

Nella sua carriera professionale, lei ha occupato per diversi anni un ruolo di primo piano nel settore della comunicazione di un’importante agenzia pubblicitaria. Com’è nata l’idea di iniziare a dedicarsi alla scrittura?
Devo dire che mi sono sempre mosso in ambiti creativi, a partire dalla musica: negli anni universitari suonavo e scrivevo canzoni. Nella pubblicità ho trovato un ambito in cui continuare a esercitare quell’anima creativa che prima trovava sfogo in quella attività. La scrittura ora, dopo dieci anni di lavoro nel settore pubblicitario a Milano, ha preso il posto che la musica aveva nel periodo della mia formazione. È un canale attraverso cui far uscire la creatività in modo più puro, non contaminato.

E com’è venuta l’idea di questo libro?
L’ho avuta qualche anno fa. Nel 2006 ho scritto un primo romanzo per Mursia, che si intitolava “Il segreto del mio insuccesso” ed era la storia di un ragazzo di provincia arrivato nella “Milano da bere” – dove però da bere non c’era più nulla. Si trattava di un libro con un taglio in parte autobiografico, pur presentando tutta una serie di elementi narrativi inventati. Questo secondo romanzo ha un punto di vita più maturo: ho lasciato perdere riferimenti puntuali a singole esperienze della mia vita e allo stesso tempo sono entrato in una logica più personale. Ho costruito un romanzo con una sua identità autonoma, dove però rientrano tutti quegli aspetti che sono stati importanti nella mia vita. È un libro dove si parla di musica –è la storia di un pianista –, dove ho fatto confluire tutto un mondo che ho frequentato e avuto modo di conoscere in tempi lontani. Ci sono anche alcuni aspetti della mia vita di adesso. Il tema centrale è la metabolizzazione di un dolore personale, che accomuna me al mio personaggio. È proprio questa sofferenza che spinge il protagonista a indossare sempre, giorno e notte, dei guanti di pelle nera, che sono la sua protezione dal mondo. Tutta la sua vita viene condizionata da questi guanti: William non riesce più a suonare il piano, non riesce più ad abbandonarsi alla musica, e anche la sua vita sentimentale si blocca. Non può amare fino in fondo: una barriera psicologica, di cui i guanti rappresentano il segno esteriore, glielo impedisce. Il non saper superare il dolore che lo ha attraversato ostacola la sua vita. A partire da un mio lutto, ho così costruito una storia sulla fragilità umana e sull’amore –non necessariamente solo tra un uomo e una donna, ma inteso in senso lato.


E qual è la verità sul dolore che il libro ci regala?

Nel libro scrivo che davanti alla morte, davanti ai lutti, non c’è nessun libretto di istruzioni. Molto spesso i condizionamenti esterni e la vita che continua a seguire il suo corso impongono l’obbligo di riprendersi giorno dopo giorno dalla sofferenza, di andare avanti. E invece bisognerebbe essere liberi di farsi carico dei grandi dolori dell’esistenza e di esprimerli fino in fondo. Il dolore va metabolizzato e vissuto pienamente. Non si deve essere eroi a tutti i costi: a volte è necessario fermarsi e affrontare la propria sofferenza per darle un senso, e farne il motore per ripartire. Bisogna avere il tempo di canalizzarla e farla diventare l’energia per il futuro.

L’amore, sembra di capire dalla lettura, è la forza che muove questa voglia di cambiamento, di dare un senso alla sofferenza. È così?
Sì, l’amore è il modo universale  per “togliersi i guanti”, per superare le proprie fragilità insieme a chi ci sta accanto. Nel libro racconto una grande storia d’amore, declinata in più modi. C’è l’amore tra un figlio e un padre innanzitutto, che vive in un capitolo centrale in cui William ricorda il genitore.  C’è poi la storia d’amore tra un uomo e una donna, tra il protagonista e Naike, una ragazza con problemi famigliari, anoressica. Il mondo dell’anoressia viene documentato in modo preciso nel mio libro, si parla anche di una clinica per la cura dei disturbi alimentari, realtà che ho esplorato attraverso interviste a ragazze che hanno avuto questo problema. Queste due  fragilità si incontrano e trovano insieme la forza di ripartire, di superare le difficoltà. E ancora c’è il legame tra William e il produttore, un personaggio molto legato allo show businness e ai soldi, che invece attraverso il rapporto con William e la purezza del suo fare musica ritrova in lui il senso più vero del suo lavoro. Attraverso l’amore i personaggi del mio libro ritrovano negli altri qualcosa che hanno perso. Adesso viviamo un momento storico particolare, di grande egoismo, chiusura, di identificazione di un nemico al di là delle nostre finestre. E invece probabilmente c’è chi aspetta solo un nostro gesto di dono per poterci corrispondere, per restituircene altri. In questo libro le relazioni ritrovano il loro senso più vero, che è quello di togliere all’altro il suo fardello, il dolore che lo appesantisce.

11 aprile 2013

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