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Conversazione con Marilina Giaquinta

Marilina Giaquinta ha pubblicato la raccolta di racconti L’amore non sta in piedi (Melino Nerella, 2015) e il volume di poesie Il passo svelto dell’amore (Le farfalle, 2015)

 

Marilina, quando intervisto un autore per la prima volta mi piace invitarlo a soffermarsi sul percorso che lo ha condotto dalla scrittura (che in sé è un fatto privato e addirittura intimo) alla pubblicazione. E ancora prima ti chiedo come e quando è nata la tua voglia di raccontarti e raccontare il mondo con i versi e la narrazione.

Scrivo da quando ero un’adolescente. Mio padre mi regalò una macchina da scrivere quando avevo sedici anni: la macchina e le poesie che ho scritto allora le conservo ancora. Ma, come ci insegna Svevo, o, per non andare così lontano, il mio amato Bufalino, scrivere è cosa diversa dal “pubblicare”, cioè rendere pubblica la propria scrittura. Ho sempre ritenuto che la decisione di pubblicare sia, da parte di chi scrive, un “atto di presunzione”: se decido di far leggere ciò che scrivo, è perché credo di avere qualcosa da dire, che ancora non è stato detto, e di avere comunque una maniera personale – e quindi unica e quindi distinguibile – , uno stile, insomma, che possa, in qualche modo, condurre a una riflessione nuova sulla lingua, sull’espressione, convinta però che “la forma” non si possa scindere dalla “sostanza”.

La mia decisione di pubblicare nel 2014 le poesie contenute ne Il passo svelto dell’amore è invece il risultato di un “bisogno”: citando ancora Bufalino, ritengo che scrivere sia terapeutico, o, per tornare a Trieste, citando Saba “l’opera d’arte è sempre una confessione”. Insomma, quelle poesie sono l’espressione di un dolore profondo che mi è stato inflitto in quegli anni da alcune persone che ho molto amato e ha corrisposto al mio bisogno di tirarlo fuori “maieuticamente” e di renderlo pubblico, affinché non fosse più mio e quindi potessi viverlo con la giusta distanza, quella degli occhi degli altri che mi hanno letto e mi hanno commentato. A prescindere comunque dalla genesi de Il passo svelto dell’amore, vivo la scrittura come una necessità, altrimenti non sarei autentica, e non sarei etica nei confronti di coloro che decidono di dedicarmi la loro attenzione e il loro tempo.

 

Le tue poesie sono molto intense. Emozioni forti racchiuse in immagini nitide, pulite. E l’amore sempre al centro. Anche nei racconti. Una visione del mondo molto femminile, direbbero alcuni. E tu che fai, se te lo dicono? Ti arrabbi? O credi nell’esistenza di una “scrittura femminile”?

Ancora una volta, ricorro ad una citazione. Di recente, ho letto un libro molto interessante scritto da Theodore Zeldin, Ventotto domande per affrontare il futuro: nel reverso di copertina, l’editore si è presa la briga di farci sapere che è una delle dodici menti più influenti al mondo e io non ho motivo di non crederci. Ecco, Zeldin propone, per poter costruire un futuro migliore, di ripartire dai rapporti personali, e cita a piene mani il pensiero di Rabindranath Tagore. I miei librini vogliono esprimere, di certo in modo meno autorevole di quanto lo faccia Zeldin, proprio questo, e cioè la crisi dei rapporti personali privi come sono del collante necessario che è l’amore. Baumann ci aveva già avvertiti, con i suoi saggi sulla “liquidità”, che “consumiamo” tutto, non solo alimentandoci velocemente coi fast food, ma bruciando allo stesso modo le nostre relazioni: non riusciamo più a fare un investimento affettivo, perché questo costa tempo e fatica. Siamo il prodotto di un sistema sociale che ha fatto della velocità del cambiamento (e del progresso tecnologico che l’assicura) il sinonimo della efficienza, che consuma le vite di chi non si adegua, rendendole strumentali e quindi precarie. Ulrich Beck, grande sociologo tedesco scomparso di recente, ha definito la nostra una “risk society”, dimostrando che il rischio del nostro sistema economico – che ha mostrato anche di recente di non essere in grado di “autodeterminarsi”, come hanno finora ritenuto, invece, alcuni economisti di fama mondiale – viene tutto scaricato sulle nostre vite, determinando insicurezza e quella che Beck chiama “la solitudine dell’uomo globale” che vive la sua cittadinanza in un’ incessante “brasilianizzazione” del territorio.

Insomma, nei miei librini ho voluto raccontare questa incapacità di relazione, questa impasse che caratterizza i rapporti umani dei tempi che viviamo, questa mancanza di “educazione sentimentale” che ci impedisce di avere gli strumenti, la “cultura” affettiva, la cura, l’empatia, per affrontare l’altro da sé.

Neanche questo suona originale, se ci riflettiamo: le cronache dei giornali sono drammaticamente piene dell’implosione familiare, amicale e amorosa e degli effetti sanguinari di questo tragico analfabetismo affettivo.

Il neurologo portoghese Antonio Damasio in un bellissimo saggio dal titolo L’errore di Cartesio ci racconta come, nel corso di tutti questi lunghi anni spesi nella sperimentazione scientifica, si è addivenuti alla scoperta che il nostro cervello non funziona senza il sentimento.

La differenza (culturale e biologica) che esiste tra un uomo e una donna inevitabilmente si trasferisce sul suo modo di vedere il mondo e di descriverlo, ma non si può parlare di una scrittura di genere perché, sembra banale ma è altrettanto vero, ognuno di noi è diverso/a dall’altro/a (la generalizzazione dei pregiudizi e degli stereotipi ha prodotto, nel corso della storia, episodi gravissimi di razzismo e di xenofobia, ha condotto allo sterminio di popoli e alla persecuzione di quelli che si etichettavano come “comunisti, zingari e omosessuali”. Ognuno si esprime con tutto quello che ha sedimentato nella vita, comprese le sue letture. A proposito di sterminio e persecuzioni, mi viene in mente Mariella Mehr, una grande poetessa svizzera di etnia jenisch, la quale, in un’intervista, ha detto che non si può scrivere se prima non si è letto. Lei rubava le chiavi alle suore dell’istituto dove era stata rinchiusa e leggeva di nascosto.

 

La ricerca dell’editore è un altro tema di cui spesso parlo con gli autori, perché pubblicare non è facile, essere letti da un editore non è facile e chi ce l’ha fatta può dare preziosi suggerimenti a chi ancora sta attraversando la selva oscura.

Io sono stata fortunata, perché so che molti, pur di pubblicare, pagano i loro “stampatori” (io non credo che in questo caso possano definirsi editori ): conoscevo Angelo Scandurra (Le Farfalle) da vecchia data, gli ho proposto le mie poesie, le abbiamo scelte in mezzo ad una produzione oceanica e lui le ha pubblicate. Il libro ha avuto un seguito per me inaspettato perché è stato ristampato. Il secondo editore l’ho conosciuto durante una presentazione de Il passo svelto dell’amore, si è innamorato del racconto di esordio de L’amore non sta in piedi e mi ha chiesto se ne avevo scritto degli altri. Gli sono piaciuti e si è determinato a pubblicarli. Anche questo è stato ristampato.

L’unico suggerimento che mi sento di dare è quello di non pagare mai, anche se credo che persino Svevo lo fece. Chi chiede del denaro per stampare un’opera non è un editore, non ama il suo lavoro e non vuole rischiare. Così siam bravi tutti.

 

Tornata da poco dal Salone del Libro di Torino, vuoi raccontare emozioni e impressioni ai lettori di Libreriamo? Cose che ti sono piaciute, magari qualcuna che ti ha deluso, che ti aspettavi diversa?

Il discorso sul Salone del Libro è molto complesso ed è difficile tradurlo in poche e chiare parole: io ero già stata al Salone due volte, una nel 2011 e l’altra nel 2013. Il Salone è cambiato, come, in questi anni di riferimento, è cambiato il nostro Paese, è lo specchio del nostro modo di produrre, offrire e consumare cultura. Quindi, ci sono stati molti momenti di “spettacolo” e file lunghissime per assistervi. La Stampa ha fatto sapere che quest’anno si è registrata una flessione dei visitatori ma si sono comprati più libri. I libri, comunque, costano e costano tanto.

Due esperienze porterò con me, come ricordo di quest’anno: ho conosciuto Rosellina Archinto, una grande figura di donna e di editrice, che propone dei veri e propri gioielli editoriali e che ha avuto il coraggio, lei piccola grande donna e “artigiana” dell’editoria, di ricomprare le proprie quote quando c’è stata la concentrazione editoriale che ha portato a quello che i giornali hanno chiamato, con brutta sincope, “Mondazzoli”. Prima di andare (“ho 82 anni”, mi ha detto, “sono stanca”) è passata dal padiglione dove mi trovavo per salutarmi e, quando sono andata a fare incetta dei suoi libri, ho trovato uno sconto speciale per me.

L’altra è stata il mio “incontro” con Maurizio Molinari, neo-direttore de “La Stampa”, che ha sostituito Mario Calabresi passato a “Repubblica”: nella sua relazione ho colto alcuni momenti di riflessione che, sebbene da lui riferiti al conflitto israeliano, credo che siano principi validi in generale. 1) La complessità: mai farsi trascinare dalle analisi superficiali anche se si rivelano sempre le più facili e, quindi, le più comode da seguire. Occorre chiedersi, dubitare, problematizzare, essere complicati. 2) L’imprevedibilità: all’esercito israeliano la si insegna come strategia anti-terroristica. L’imprevedibilità non è altro che la caratteristica del nostro cervello: insegnano a usare il cervello che è imprevedibile in quanto diverso in ognuno di noi. 3) L’”entusiasmo”, lui lo ha chiamato cosi, io lo chiamo “amore”: mai perdere l’entusiasmo e la voglia di vivere e di dare vita che poi, se guardiamo bene, è anche un invito a non arrendersi mai, a resistere, ad amare.

 

Che lettrice è Marilina Giaquinta? Cosa tieni sul comodino o in borsa o sul tablet (e a proposito: solo cartaceo, prevalentemente digitale, misto)? Ci sono libri e/o autori che ti hanno segnato? L’ultimo libro che ti ha entusiasmato?

Domanda difficile: sono un’onnivora e librodipendente, se non leggo sto male e vado in crisi di astinenza. In borsa tengo sempre un libro, come Teresa, la protagonista de L’insostenibile leggerezza dell’essere: mi conforta sapere che in ogni momento posso aprirlo e leggerlo o anche solo averlo a portata di mano.

Leggo solo cartaceo, sono cresciuta con questa abitudine e non riesco a leggere un libro su altro supporto. Leggo in prevalenza classici: da alcuni anni a questa parte mi sono scoperta appassionata di carteggi, di epistolari e quindi in questo momento leggo in prevalenza questo genere letterario. A casa, ci sono più librerie che mobili e, nonostante ciò, i libri invadono la camera da letto e la stanza in cui di solito scrivo, perché mi piace essere circondata dai libri. Gli autori che mi hanno segnato sono tanti, troppi, citarli a memoria significa dimenticarne qualcuno, cito “random”: Dostoevskij, Mann, Joyce, Beckett, Camus, Kafka, Saramago, Hesse, Böll, e tra le donne la Woolf, la Yourcenar ma anche la Bachmann. E poi una sterminata letteratura angloamericana (da ultimo David Forest Wallace), latinoamericana (Borges, Amado, Márquez, Vargas Llosa e altri meno conosciuti). Ma anche tutti gli scrittori vincitori dei Nobel, anche se non tutti mi sono piaciuti. Di recente, ho letto tutto Zweig, che adoro, (anche se la Achmatòva non ne parlava molto bene); negli ultimi anni della sua vita, scrisse delle bellissime biografie, quella di Montaigne è quella che preferisco. E poi tanta tanta tanta poesia.

Tra gli italiani, in questo momento, leggo di continuo la Ortese.

Il mio autore preferito (chi mi conosce lo sa perché sono compulsiva) è Javier Marias: di lui ho letto tutto, anche gli “juvenilia”, l’ho letto pure in spagnolo e il mio sogno è poter scrivere con lui.

 

Ti faccio una domanda che fanno sempre a me (e quindi perdonami, se in tanti la fanno si vede che l’argomento per molti è interessante): ma con la tua complessa e impegnativa professione, quando trovi il tempo di scrivere (ancora perdono)?

Di notte, in prevalenza scrivo di notte. E comunque, si trova sempre il tempo per le cose che ci piacciono. A me hanno sempre chiesto come ho fatto ad aver letto tutti questi libri.

 

È un periodo di creazione o di riflessione questo? Progetti in cantiere, parole che già prendono forma?

Forse, entro l’anno, uscirà qualcosa, se riesco a finirlo, il cui genere non so definire, perché somiglia molto a un lavoro teatrale ma non lo è del tutto. E forse uscirà anche una nuova raccolta di poesie, ma è ancora in fieri, niente di concreto. Nel contempo, lentamente, sta prendendo forma il mio primo romanzo.

 

Grazie, Marilina, per il tuo tempo e le tue risposte.

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