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”Con la mia valigia gialla”, un viaggio dal Kenya fino a se stessi

La valigia che serbo nel segreto della mia anima è fatta di cartone, come quella dei viaggi epici compiuti da antenati di cui conosco solo il nome, con una fodera in seta purissima, disseminata di fiori e farfalle dipinti a mano da una sconosciuta, che racconta, in eterno, una primavera di poesia...

La valigia che serbo nel segreto della mia anima è fatta di cartone, come quella dei viaggi epici compiuti da antenati di cui conosco solo il nome, con una fodera in seta purissima, disseminata di fiori e farfalle dipinti a mano da una sconosciuta, che racconta, in eterno, una primavera di poesia.

 

Tuttavia, esiste un’altra valigia, quella che deve assolvere allo “sporco” compito di contenere i miei effetti personali destinati a raggiungere luoghi non onirici, ma fisici, attraversando stive e rulli, fino a ritornare a me, con un graffio ed un’etichetta in più, quali rughe su un volto amico.

La mia è rosa, come un fiore. La maggior parte sono nere o blu. Altre, invece, hanno il colore del sole.

  

Stefania Bergo, grazie al suo libro Con la mia valigia gialla, edito nel 2013, ci conduce in Kenya, dalla terra rossa, profumata di savana, alle città dai contrasti colorati, fino ad un ospedale popolato da madri, bambini e anziani: un’umanità eterogenea in cui è impossibile non specchiarsi, rispondendo ad un abbraccio fatto di carne o di sguardi.

 

L’esperienza di volontaria, raccontata dalla abile penna dell’autrice, ha inizio nel dicembre del 2004. Giunta per rendersi utile come ingegnere nella realizzazione dell’area pediatrica, la ragazza, in tre settimane intense, imparerà il senso dell’oggi, dell’attimo prezioso e irripetibile, della forza della vita e della talvolta contemplata vittoria della morte.

 

Si percorre, infatti, un ciclo senza sosta, di cui tutti siamo particelle danzanti, come quelle che cadono sui riccioli d’ebano di un bimbo che buca un palloncino sospeso su una corda, il giorno di Natale.

Il romanzo della Bergo non è un mero diario di viaggio, neppure una meticolosa testimonianza di esso.

 

È la storia in una valigia, gialla come una fontana a forma di sole, al cui interno si racchiudono le riflessioni di una giovane donna destinata a scoprirsi viva all’ombra di un tamarindo, percependo il calore dei raggi divini anche sotto il sorriso di una luna dalle strisce orizzontali, memento di magico mistero.

   

«Mi sembra di contemplare un miracolo. La vita. Prepotente. Vittoriosa. Anche qui, dove tutto è difficile, dove tutto è una conquista, dove non c’è certezza alcuna. Sento la manina avviticchiata al mio dito stringere così forte da farmi male. Da farmi male dentro. Perché questa stretta mi costringe a non essere da meno, a sopravvivere ai miei errori, al mio dolore, sebbene tutto sembri crollare dentro di me. E questa volta non riesco a fermarle, le lacrime. Mi accarezzano le guance e cadono sulla copertina a fiori. Sua mamma è arrivata adesso. Si è seduta davanti a me e mi sta guardando mentre piango. Mi osserva interrogativa e potrei giurare di sentire i suoi pensieri, “Perché piangi? Il mio bambino è vivo, sta bene. Che c’è da piangere?”. Non può certo capire che in realtà piango perché io mi sento viva, perché io sto finalmente bene. Di nuovo».

 

Emma Fenu

 

15 luglio 2015
 
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