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Come tutelarsi dalle fake news in campagna elettorale

Intervista a Silvia Grassi, coautrice del saggio “Comunico dunque sono”, per parlare della comunicazione oggi in ambito giudiziario e del dibattito contemporaneo tra fake news, influencer e campagna elettorale.

Le fake news non avvelenano solo il dibattito pubblico, ma sono un rischio per la nostra democrazia. Per questo giornalisti e cittadini devono sempre verificare e soppesare fonti e canali d’informazione. E’ quanto afferma la giornalista professionista Silvia Grassi, Responsabile dell’Ufficio Stampa del CSM e consulente per la comunicazione istituzionale del Consiglio di Stato e dei TAR, nonché coautrice del saggio “Comunico dunque sono”, pubblicato da Guida editori, curato dal Prof. Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Campania. L’abbiamo intervistata per parlare della comunicazione oggi in ambito giudiziario e di come si sia evoluto, fino ad arrivare al dibattito contemporaneo tra fake news, bufale, influencer e campagna elettorale.

Fake news, giustizia e campagna elettorale, intervista a Silvia Grassi

Cosa significa comunicare la giustizia?

Comunicare la giustizia – come ha ricordato il Presidente della Repubblica Mattarella, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione dei corsi della Scuola Superiore della Magistratura il 5 aprile del 2019 – non significa ricercare consenso, ma costruire fiducia che i cittadini devono riporre nell’azione giudiziaria. E il primo strumento per costruire fiducia- come spiego nel manuale Comunico dunque sono – è la trasparenza.

Quali sono gli errori che la magistratura non deve commettere in tal senso?

Non parlerei di “errori”. La sfida, oggi, è quella di conciliare “il dovere di comunicare” la giustizia, con la nuova disciplina sulla presunzione d’innocenza. Si tratta di un bilanciamento molto delicato, che metterà alla prova i Capi degli Uffici giudiziari, gli unici titolati a comunicare. La legge Cartabia, approvata lo scorso giugno, incide profondamente sul diritto-dovere di comunicare dei pm, attraverso una modica dell’ordinamento giudiziario che introduce dei nuovi illeciti disciplinari. Solo il Procuratore “Capo” potrà comunicare e solo quando le attività dell’Ufficio riguardano attività di interesse e rilievo pubblico.

I Capi degli Uffici giudiziari si dovranno fare carico di un’ulteriore responsabilità: quella dal vaglio del pubblico interesse, criterio di selezione delle notizie che prima era rimesso al giornalista. Ogni comunicazione dovrà essere rispettosa del diritto alla presunzione d’innocenza delle parti coinvolte, della dignità delle persone e dei principi del giusto processo e questo obbligo di rispetto effettivo dovrà essere frutto di uno sforzo comune di magistrati e giornalisti, usando le parole più appropriate.

Su quali valori imprescindibili si basa la comunicazione della magistratura?

Per il magistrato, “comunicare” significa svolgere una funzione oggettivamente esplicativa che dia conto delle ragioni del diritto, spiegandone iter e criteri logico-argomentativi; e non delle valutazioni morali o delle considerazioni etiche.

Secondo le “Linee guida” sulla comunicazione istituzionale, approvate dal CSM nel 2018 “la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria sono valori che discendono dal carattere democratico dell’ordinamento e sono correlati ai principi d’indipendenza e autonomia della magistratura nonché a una moderna concezione della responsabilità dei magistrati”. Per questo l’orizzonte del magistrato deve sempre essere quello di costruire fiducia, non di ricercare consenso. In gioco c’è la credibilità dell’istituzione giudiziaria.

Magistrati e giornalisti cercano entrambi la verità: con quali differenze?

Valorizzerei gli elementi comuni rispetto alle differenze. Autonomia, indipendenza e imparzialità, le attribuzioni costituzionali della magistratura danno slancio ideale anche alla professione giornalistica che si fonda sull’autonomia e l’indipendenza di giudizio, oltreché sul rispetto dei precetti deontologici.

Del resto, i Magistrati, come i giornalisti, pur in modo diverso e con strumenti diversi, cercano entrambi la verità (processuale o giornalistica), esercitando una funzione pubblica e perseguendo un interesse pubblico.

Da Tangentopoli in poi, abbiamo assistito all’ingresso in tv della magistratura. Cosa è cambiato? Quali sono stati i pro e i contri di questa “spettacolarizzazione”?

Non parlerei solo di magistrati in tv, ma anche del racconto del processo, con le telecamere nelle Aule dei Tribunali. Nel 1985 nasce la trasmissione Rai “In Pretura”, che nel 1987 diventa lo storico programma “Un giorno in pretura”, in onda ancora oggi. Un modo serio e garbato per raccontare i processi in tv. Ma è dagli anni ’90, in poi, con il clamore di Tangentopoli che si diffonde il fenomeno della “spettacolarizzazione” della giustizia nei salotti televisivi, anche con imputati invitati (se in libertà) in studio, a processo in corso.

La “spettacolarizzazione” è l’apice del corto circuito tra media e giustizia: è la celebrazione sui mass media di una giustizia parallela. Un processo che si celebra nei salotti tv e non nelle Aule di giustizia e che spesso finisce per sovrapporre la verità mediatica a quella giudiziaria, con prevalenza della prima sulla seconda, soprattutto nel convincimento dell’opinione pubblica.

Oggi, come allora, si rincorre la notizia “last minute”, lo scoop, raccontando con dovizia di dettagli l’avvio dell’inchiesta e le indagini preliminari e con poche righe e disinteresse il processo.

La spettacolarizzazione è di grande attualità in questa inedita campagna elettorale estiva giocata molto sui Social. Per la prima volta stiamo assistendo alla discesa in campo degli influencer anche su tematiche molto delicate come il diritto all’aborto.

Esattamente. Oggi la spettacolarizzazione si è spostata dai media tradizionali alla Rete, penso a Instagram e TikTok, soprattutto. Il ruolo e il “peso” degli influencer è sempre più percepito e percepibile. Si parla addirittura di “endorsement” ai partiti e di “partito degli influencer”. Io penso che la domanda da porsi oggi sia: E’ normale tanto potere di influenzare l’opinione pubblica senza nessun controllo, senza una disciplina di settore? In Rete informazione e marketing sono spesso sovrapposte e indistinte. Inoltre mentre chi esercita la professione giornalistica ha dei precisi obblighi deontologici, tutti gli altri soggetti che “comunicano” con i Social sono liberi di scrivere e promuovere qualsiasi prodotto (o tesi) senza nessun controllo. Nel libro “Comunicatore a chi?” che sto scrivendo con un collega di grande esperienza, il Direttore Roberto Iadicicco, affronteremo proprio questo tema, per cercare di capire quali sono gli strumenti e le professionalità per combattere questi fenomeni e quello particolarmente odioso delle fake news.

Verità, post verità e fake news, altri temi di grande attualità, specie in questa infuocata campagna elettorale. Come si affrontano?

Le fake news sono le principali manifestazioni della post verità. Falsificazioni, manipolazioni, omissioni. Si manifestano in vari modi e sono particolarmente pericolose perché non avvelenano solo il dibattito pubblico, ma sono un rischio per la nostra democrazia.

Penso all’ultimo caso, quello della piccola Diana, la bimba di 18 mesi abbandonata da sola in casa a Milano per 6 giorni, e morta di stenti. Sui Social dei familiari non esistevano foto della minore, e così dalla rete è sbucata una foto, totalmente falsa con un post su Facebook, che è subito diventato virale, inducendo in errore molti. Il confine tra comunicazione, informazione e social media è sempre più “mobile”.

Assistiamo a una continua sovrapposizione dei piani. Per questo giornalisti e cittadini devono sempre verificare e soppesare fonti e canali d’informazione. Il pluralismo è una ricchezza, ma non tutte le fonti sono uguali, bisogna esserne consapevoli.

E quindi come ci si tutela?

Per tutelarsi, nel mare magnum, dell’informazione (e della disinformazione), bisogna affidarsi sempre a fonti autorevoli. Io consiglio di verificare sempre la fonte, e di affidarsi al vaglio dei 3 setacci di Socrate. Prima di riportare una notizia (o di rilanciarla sui Social) bisogna chiedersi: se è vero, se almeno si tratta di qualcosa di buono e se serve a qualcosa. Se in tutti e tre i casi la risposta è negativa, io mi comporterei come suggerisce Socrate: “Se ciò che vuoi raccontare non è vero, né buono, né utile, allora preferisco non saperlo e ti consiglio di dimenticarlo”.

Silvia Grassi

Giornalista professionista. Responsabile dell’Ufficio Stampa del CSM e consulente per la comunicazione istituzionale del Consiglio di Stato e dei TAR. Laureata in Giurisprudenza e in Lettere. Dagli esordi in TV, come giornalista d’inchiesta su Rai2 per “Annozero” di Michele Santoro, alla carta stampata: “Il Mattino”, “L’Espresso”, Formiche.net. Appassionata d’arte e di beni culturali, per il Ministero dei Beni Culturali ha curato le grandi campagne di comunicazione come “Una notte al museo”. Scrive su riviste di settore che affrontano i temi della comunicazione e della privacy, ha un blog su Formiche.net ed è coautrice del saggio “Comunico dunque sono”, pubblicato da Guida editori, curato dal Prof. Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Campania.

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