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Alle origini del Trono di Spade, tradurre i romanzi di G.R.R Martin

La saga dei Targaryen, secoli prima delle vicende del Trono di Spade. Abbiamo intervistato Edoardo Rialti, il traduttore italiano di "Fuoco e Sangue"

MILANO – La grande storia della Casa Targaryen, dalle gesta di Aegon il Conquistatore, creatore del Trono di Spade, fino alla guerra civile che ha portato la dinastia al crollo. Questo è Fuoco e Sangue di George R.R. Martin: non un romanzo, bensì la prima parte di un’imponente affresco storico che narra le gesta di una delle case regnanti di Westeros, la cui progenie sarà protagonista – secoli e secoli più tardi – delle vicende narrate nelle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.

Nell’attesa che esca l’attesissimo epilogo della serie del Trono di Spade (l’ottava stagione andrà in onda il 15 aprile su Sky Atlantic), Martin regala ai lettori un’opera dal respiro diverso, in breve tempo diventata bestseller internazionale.

Il traduttore italiano per Mondadori è Edoardo Rialti. Classe 1982, docente di Letteratura Comparata in Italia e in Canada, collabora con Il Foglio e L’Indiscreto, ed è traduttore di romanzi fantasy e sci-fi per svariate case editrici. Per Cantagalli ha pubblicato L’uomo che ride. L’avventura umana e letteraria di G. K. Chesterton e Un’infinita sorpresa. La vita e le opere di C. S. Lewis. Lo abbiamo incontrato per chiedergli come è stato confrontarsi con l’opera di uno scrittore del calibro di George R.R. Martin, e per farci raccontare del suo lavoro come traduttore.

edoardo rialti
Edoardo Rialti

Partiamo da Fuoco e Sangue di George R.R. Martin. Com’è stato confrontarsi con questo attesissimo (e vendutissimo) libro? Quali aspetti ti hanno entusiasmato e quali invece sono stati più ostici?

Diciamo che mi ci sono accostato con paolino timore e tremore. Game of Thrones è una delle saghe fantasy di maggior successo di sempre, e per me è stata un’emozione oltre che una sfida stilistica incredibile. Paradossalmente, gli aspetti ostici sono stati proprio i più entusiasmanti: Il Bello è difficile, scriveva Platone.  È stato difficile perché non si tratta di un romanzo, bensì di una pseudo-cronaca storica: ha uno stile diverso rispetto ai romanzi delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, e Martin, come tutti i grandi autori, è in grado di dialogare non solo con le altre sue opere, ma anche con altri grandi opere della letteratura mondiale, fantasy e non. Con il Silmarillion e le Appendici al Signore degli Anelli di Tolkien, innanzitutto, ma anche con le grandi cronache storiche: la storia dei Plantageneti, delle Crociate, La caduta dell’impero romano di Gibbon. Tanti personaggi della dinastia dei Targareyan sono modellati su personaggi storici: Alysanne la Buona, una delle leader femminili più iconiche di Fuoco e Sangue è ispirata direttamente a Eleonora d’Aquitania.

Complesso ed entusiasmante è stato confrontarsi con i due principali registri che permeano l’opera: uno più elevato, quello del maestro della cittadella che funge da narratore. Un registro solenne, ufficiale, austero e composto. Rappresenta la versione ufficiale della storia. Alla sua voce, però, si alternano dei “contraltari”, che offrono la visione dietro le quinte delle vicende, e parlano una lingua diversa con tutte le possibili sfaccettature. Direi che l’aspetto più bello è stato proprio cercare di rendere nella traduzione il patchwork di fonti che fanno vivere l’opera.

In un tuo pezzo per Il Foglio scrivi che, al pari dei capolavori di Tolkien, la saga di George R.R. Martin costituisce un punto di svolta decisivo per il genere fantasy. Come mai?

Martin è un autore fondamentale oggi, perché è riuscito a plasmare l’immaginario collettivo, anche grazie al successo della serie tv. Chiaramente, nel mondo fantasy Tolkien rappresenta uno spartiacque imprescindibile: c’è un a.T e un d.T. Però, come dice Joe Abercrombie, dopo i John Ford del fantastico arrivano i Sergio Leone: dopo la grande epica arriva chi indaga nelle pieghe umane, nelle zone d’ombra dell’uomo.  Martin racconta un mondo che non presenta una divisione chiara tra bene e male, tra bianco e nero, ma anzi è fatto di zone grigie. Ha declinato l’etica fantasy di Tolkien nel fango del mondo contemporaneo, nella solitudine, nella paura, nel cinismo, nell’incertezza dei giorni nostri. È un vero figlio maturo di Tolkien. Prendiamo, ad esempio, il tema del potere: Il Signore degli Anelli è, in fondo,  un libro sulla rinuncia al potere, a un certo tipo di potere assoluto. In Game of Thrones, invece, il potere è comunque un male necessario: nella saga di Martin assistiamo a un’infinita lotta per il potere, per sedersi sul Trono di Spade. Anche se bisogna notare che, quando si presenta una minaccia oscura da oltre il Muro, le lotte interne perdono di senso, e si rivelano essere inconsistenti: il gioco del trono, appunto.

Martin ha declinato l’etica fantasy di Tolkien nel fango del mondo contemporaneo, nella solitudine, nella paura, nel cinismo, nell’incertezza dei giorni nostri.

Quali altri autori fantasy contemporanei ti piacciono?

Io amo quei fantasy che riescono a spingere il genere agli estremi confini di se stesso. Ti direi Stephen King, che con gli otto romanzi de La torre nera accoglie spunti anche dal western, la grande epica del Nordamerica. I romanzi di Joe Abercrombie, che ho il piacere di tradurre, e di Morgan, che sa fonderli con il noir e il fantascientifico.

Tradurre è come tradire, si dice. È vero secondo te?

Questa è la grande domanda di ogni traduttore. Certo, traducendo inevitabilmente qualcosa va perso, soprattutto certi tratti musicali della lingua d’origine, tante sfumature. Tuttavia, dall’elemento della perdita si aggiunge comunque qualcosa. “Quanto più grande è un poeta quando più e traducibile”, sosteneva T.S. Eliot, secondo il quale l’intraducibilità è paradossalmente un segnale di valore minore. Un grande traduttore è come un grande attore teatrale, un grande pianista: c’è cambiamento da voce a voce,  ma l’interprete può consegnare la profondità dell’esperienza umana e poetica dell’originale. Sicuramente perde qualcosa, ma può anche aggiungere, appunto: se è un grande interprete può aggiungere la propria carne, il proprio sangue, la propria mediazione umana, e in questo senso la traduzione è una ricchezza fondamentale.  La traduzione è il primo atto critico, la prima verifica dell’interpretazione. Mi colpisce sempre pensare a un amico insegnante delle superiori, che quando interroga su “Donna del paradiso” di Jacopone da Todi dà il voto agli studenti  sulla mera lettura del testo, perché già leggere è un’interpretazione, un giudizio critico. La nostra voce che si aggiunge alla voce dell’autore è un arricchimento, un elemento bello e anche commovente, perché incarniamo la storia nelle varie lingue e culture.

Un grande traduttore è come un grande attore teatrale, un grande pianista: c’è cambiamento da voce a voce, ma l’interprete può consegnare la profondità dell’esperienza umana e poetica dell’originale.

Come è nata la tua passione per la traduzione?

Io ho sempre immensamente amato la letteratura e la cultura inglese, mi sono sempre sentito immaginativamente a casa mia in Inghilterra. Da ragazzino per i fatti miei mi leggevo Keats e Oscar Wilde, amavo le loro voci originali e volevo ascoltarle sempre più, anche perché molte opere non erano disponibili in italiano. Tutto è iniziato quando all’università tradussi alcuni testi, e ho capito che ne avevo la passione, che sentivo quegli scritti miei come se fossero stati un lavoro di scrittura creativa. E continuai a tradurre per conto mio. Ebbi l’incoscienza felice di proporre a Rizzoli una traduzione di alcuni inediti di C. S. Lewis, dei racconti che io amavo moltissimo in lingua originale, e aspettavo che uscissero in italiano. Mi sono detto “Sai che c’è? Li traduco io”. Ed effettivamente sono stati pubblicati. Questo poi ha generato un effetto “palla di neve”, ho continuato a tradurre anche durante l’università e la traduzione è ora una parte importante della mia professione.

Come si fa a diventare traduttori? Cosa consiglieresti a chi vuole intraprendere questa strada?

Magia nera e omicidio (ride). Non mi sento di dare consigli tecnici, ci sono ottime scuole e insegnanti di traduzione, che io ammiro moltissimo: Enrico Terrinoni, Fabio Pedone, Franca Cavagnoli, Ilaria Piperno, per citare alcuni nomi. L’unico consiglio che mi sento davvero di dare è: leggere, leggere, leggere, leggere. Soprattutto in italiano! Bisogna sapere alla perfezione la lingua straniera, ovviamente, ma bisogna saper scrivere benissimo nella propria lingua madre, lavorare sul lessico, sulle espressioni. È scrittura creativa, serve la ricchezza di un vocabolario ricco e duttile, e serve tutto ciò che possa amplificare questa capacità: scrittura personale, musica,  teatro, cinema, lettura. Confrontarsi con i grandi traduttori e traduttrici del passato (penso alle magnifiche lettere della mia amata Cristina Campo, o al consiglio d C. Lewis di “scrivere con le orecchie”). Spaziare in altre letture, altri stili, e saper cogliere spunti da ogni circostanza: quante volte mi è capitato di trovare ispirazione per traduzioni ostiche sentendo delle frasi pronunciate in autobus. Ecco, possiamo dire che andare in autobus serve anche a tradurre il Trono di Spade (ride).

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