La frase compare in Il nome della rosa (1980), il celebre romanzo di Umberto Eco che intreccia indagine poliziesca, riflessione filosofica e ricostruzione storica del Medioevo. L’affermazione, che nel libro viene attribuita a un monaco inflessibile e austero, rispecchia un atteggiamento diffuso nella cultura ecclesiastica medievale: la diffidenza verso il riso, percepito come un cedimento della ragione, un’apertura al disordine dei sensi, una minaccia alla gravità che la vita cristiana sembrava richiedere. Analizzare questa citazione significa non solo entrare nel cuore del romanzo di Eco, ma anche esplorare il complesso rapporto che l’Occidente ha intrattenuto con la risata lungo i secoli.
«Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne»
Umberto Eco e Il nome della rosa
Il nome della rosa è ambientato nel 1327 in un’abbazia benedettina del Nord Italia. La vicenda ruota attorno a una serie di misteriosi omicidi che il frate francescano Guglielmo da Baskerville cerca di risolvere. Al centro della trama, oltre all’intrigo del giallo, c’è un libro proibito di Aristotele, il secondo libro della Poetica, che avrebbe trattato del riso e della commedia. Per alcuni monaci, questo testo rappresenta un pericolo mortale: ridere significa infatti indebolire la fede, relativizzare le verità assolute e mettere in dubbio l’autorità della Chiesa.
La frase citata esprime bene questa visione. Il riso non è considerato un gesto innocente, bensì un segno della “corruzione della carne”, cioè della parte fragile e peccaminosa dell’uomo. Esso smaschera la serietà, incrina la disciplina, apre la porta alla derisione e, di conseguenza, al peccato.
Per comprendere meglio la posizione dei monaci descritti da Umberto Eco, bisogna ricordare il ruolo che il riso aveva nel pensiero medievale. Molti autori cristiani diffidavano della risata, giudicandola frivola o addirittura pericolosa. Sant’Ambrogio, ad esempio, ammoniva a ridere con moderazione, mentre san Giovanni Crisostomo sosteneva che il riso sfrenato potesse condurre all’indisciplina morale.
Dietro a queste posizioni vi era una convinzione di fondo: la vita terrena è una prova, un cammino di penitenza in vista della salvezza eterna. In questo orizzonte, il riso sembrava interrompere la serietà necessaria alla fede, distrarre l’uomo dal pensiero della morte e del giudizio divino. Da qui la definizione di Umberto Eco: il riso come “debolezza”, segno che la carne prevale sullo spirito, come “corruzione”, perché mina l’ordine morale, e come “insipidità”, in quanto rende l’uomo superficiale, incapace di cogliere la gravità della condizione umana.
Ma Umberto Eco, attraverso la costruzione del suo romanzo, non si limita a riportare questa visione: la problematizza. Infatti, se da un lato vi è chi teme il riso, dall’altro vi è la possibilità che esso diventi uno strumento di libertà. Proprio l’idea di Aristotele che la commedia possa avere una funzione catartica – simile a quella della tragedia – viene percepita come destabilizzante: ridere significa non solo sdrammatizzare, ma anche rivelare l’assurdità di regole troppo rigide, smascherare il potere che si nasconde dietro la seriosità.
In questo senso, il romanzo di Umberto Eco mette in scena uno scontro tra due visioni del mondo: da una parte, l’austerità che condanna il riso come corruzione, dall’altra, l’idea che la risata possa avere una funzione conoscitiva e liberatoria.
La riflessione sul riso non appartiene solo al Medioevo. Filosofi moderni e contemporanei hanno continuato a interrogarsi su di esso. Henri Bergson, nel suo saggio Il riso (1900), lo definisce un correttivo sociale: ridere di un comportamento meccanico o eccessivo serve a riportarlo alla normalità. Sigmund Freud, invece, lo interpreta come scarico di tensioni psichiche. In entrambi i casi, il riso appare come un elemento profondamente umano, non come debolezza, ma come energia vitale.
Il contrasto con la citazione di Eco è evidente: ciò che i monaci percepiscono come insipidità diventa invece, per la modernità, un segno di intelligenza, di adattamento, di creatività.
Tornando alla frase in questione, si nota un aspetto particolare: il legame tra riso e carne. Nella visione medievale, “carne” non è solo il corpo, ma tutto ciò che richiama la fragilità umana, la sensualità, l’inclinazione al peccato. La risata, che scuote il corpo, che lo espone in smorfie e movimenti incontrollati, diventa allora simbolo della caducità. Essa è, per così dire, la prova che non siamo angeli, ma creature vulnerabili.
In questo senso, la condanna del riso è anche un tentativo di negare la corporeità. Ma il riso resiste, perché è un gesto che affiora spontaneo e che nessuna regola può eliminare del tutto.
La citazione di Umberto Eco, pur collocata in un contesto storico lontano, ci interroga anche oggi. Viviamo in una società che alterna momenti di serietà estrema a un eccesso di leggerezza e ironia. Da un lato, c’è chi riduce tutto a scherzo, rischiando di svuotare i valori; dall’altro, c’è chi prende ogni cosa con gravità, dimenticando che la vita ha bisogno anche di sorriso.
Forse la verità sta nel mezzo: il riso non è corruzione, ma neppure semplice evasione. È un linguaggio complesso che può unire, smascherare, guarire. Ridere non significa negare la realtà, ma affrontarla in modo meno oppressivo.
«Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne»: con queste parole Umberto Eco ci restituisce la voce di un Medioevo severo e timoroso della leggerezza. Ma, nello stesso tempo, ci invita a riflettere sul valore opposto del ridere, che può diventare strumento di libertà e di saggezza.
Se i monaci del romanzo vedevano nel riso un pericolo, noi possiamo riconoscervi una forza vitale, un atto profondamente umano che, pur nascendo dalla fragilità della carne, si trasforma in un segno di intelligenza e di resilienza. Lungi dall’essere “insipido”, il riso è forse ciò che dà sapore alla vita.