Nel romanzo Un amore del nostro tempo di Tommaso Landolfi, autore tra i più raffinati e complessi del Novecento italiano, la felicità è un concetto che sfugge alla presa razionale, una condizione paradossale che, se nominata o pensata troppo a lungo, sembra evaporare, dissolversi. La frase: «Felici si può essere, forse, a patto di non sapere d’esserlo» ci introduce nel cuore di un pensiero che ha radici filosofiche profonde e implicazioni esistenziali vertiginose. A pronunciarla è uno dei protagonisti di un amore incestuoso, quello tra fratello e sorella, relazione che, già per sua natura proibita, esaspera il conflitto tra norma sociale e verità emotiva, tra etica e desiderio.
«Eh, come,» ripresi «senza discussione delle premesse! Dov’è tutta la caparbietà e anche la sottilità del tuo smanioso intelletto? Al contrario, son proprio le premesse che devo colpire al cuore, dacché mi sono scelta la parte del diavolo. E lo farò tra un istante, o mi studierò sistematicamente di farlo; ma prima mi compete rammentarti ciò che tu stesso hai affermato.
Non l’hai detto tu stesso più o meno apertamente, che la felicità ci si sottrae e dilegua in fumo se solo tentiamo contemplarla o se qualche straordinario caso ci metta nelle naturali condizioni da riconoscerla? A maggior ragione se di proposito ce la prepariamo quale di per sua essenza contemplabile, anzi se tale la concepiamo fin dal principio e nell’atto medesimo di crearcela! Felici si può essere, forse, a patto di non sapere d’esserlo».
Tommaso Landolfi: felicità e ragione al servizio della parola
Il passaggio citato è emblematico dell’opera landolfiana: dialogico, speculativo, e insieme lirico. È un confronto tra due intelletti in tensione, una specie di sfida filosofica che richiama i dialoghi socratici, ma immersa in un’atmosfera tragica, crepuscolare. L’interlocutore di turno – la “parte del diavolo” – prende su di sé il ruolo di confutare non tanto le conseguenze quanto le premesse stesse, come si farebbe in una disputa logica o teologica. Ma la materia del contendere non è un problema astratto: è la felicità, una delle mete più ambite e insieme più elusive della condizione umana.
Felicità e consapevolezza: un paradosso antico
La frase «felici si può essere, forse, a patto di non sapere d’esserlo» richiama un topos che attraversa la filosofia occidentale. Da Epicuro a Pascal, da Schopenhauer a Kierkegaard, la riflessione sull’infelicità come prodotto della coscienza è ricorrente. Il semplice fatto di domandarsi se si è felici può diventare l’inizio della fine di ogni beatitudine. In questa linea, la felicità si dà solo nel presente inconsapevole, nella vita vissuta anziché riflessa. Appena si tenta di possederla come un oggetto, come un risultato, essa svanisce.
In Landolfi, però, il discorso si complica perché si svolge all’interno di un contesto amoroso impossibile, segnato dalla colpa e dalla trasgressione. È come se l’unica possibilità di felicità autentica fosse data non solo dalla dimenticanza di sé, ma anche dalla rimozione della legge, dalla sospensione del giudizio. Il diavolo che parla nel brano non è tanto colui che tenta, quanto colui che smaschera: mette in crisi la presunta neutralità delle premesse morali e logiche. La felicità non può essere progettata, né costruita “a tavolino”, perché ciò che la rende autentica è la sua gratuità, la sua improvvisa apparizione nella vita, non la sua pianificazione.
Il fallimento del controllo
L’elemento tragico del romanzo emerge proprio da qui: i protagonisti tentano, in un certo senso, di crearsi la felicità, di edificarla come un tempio privato dove vivere al riparo dal mondo, dalle sue convenzioni e dai suoi giudizi. Ma il tentativo è destinato al fallimento. L’amore incestuoso è una sfida alle regole, ma anche una condanna a vivere nell’ombra. L’intelligenza dei personaggi, la loro capacità di analisi e introspezione, anziché salvarli, li spinge in una spirale di disfacimento, di paralisi. L’intelletto non li libera, li imprigiona. Lo stesso “smanioso intelletto” di cui si parla nel brano si rivela sterile quando cerca di afferrare ciò che per sua natura è effimero e pre-logico: la felicità, appunto.
Tommaso Landolfi sembra dirci che la coscienza è un ostacolo alla felicità, che la riflessione la distrugge, che la consapevolezza ne è la nemica. La vera felicità – sempre che esista – si colloca in un tempo pre-razionale, o almeno non sorvegliato dalla ragione. Può essere vissuta, ma non contemplata. Può essere provata, ma non definita. La sua stessa esistenza è incompatibile con la sua enunciazione.
Un amore impossibile, una felicità impensabile
Il tema dell’incesto non è dunque solo uno scandalo narrativo, ma diventa metafora estrema del desiderio di una felicità assoluta, ma al di fuori dell’ordine simbolico. È la forma d’amore che non può essere detta, che non può essere mostrata, pena la sua distruzione. L’incesto è l’amore che vuole sottrarsi a tutte le coordinate sociali, che non cerca approvazione ma intensità, assolutezza. Ed è proprio questa intensità che condanna i protagonisti: non perché “sbagliano”, ma perché il loro tentativo di possedere la felicità la rende irraggiungibile.
Landolfi, con la sua lingua raffinatissima e antinaturalistica, disegna un mondo mentale prima che narrativo. Il discorso si svolge su un piano concettuale, ma sempre sullo sfondo di un abisso emotivo. Il lettore è chiamato a confrontarsi con una verità inquietante: ciò che desideriamo di più – la felicità – ci è negato proprio nel momento in cui cerchiamo di afferrarla. E forse, in una società come la nostra, che fa della felicità un diritto e un dovere, questo ammonimento è più attuale che mai.
La felicità, in Landolfi, non è una conquista né un premio, ma un accadimento fragile, quasi impercettibile, che non tollera di essere interrogato. Nel momento in cui ci chiediamo “sono felice?”, già non lo siamo più. È una verità paradossale e dolorosa, che il romanzo Un amore del nostro tempo ci affida attraverso parole intellettualmente taglienti, ma emotivamente disarmanti. Ed è forse in questa consapevolezza, tragica ma lucida, che si cela una forma profonda di saggezza.