Una frase di Silvio D’Arzo sulla sensibilità delle persone

3 Novembre 2025

Leggiamo assieme questa citazione uscita dalla penna di uno degli scrittori più sottovalutati del Novecento italiano: Silvio D'Arzo.

Una frase di Silvio D'Arzo sulla sensibilità delle persone

La citazione di Silvio D’Arzo tratta dal racconto Due vecchi rappresenta una delle riflessioni più sottili e rivelatrici della poetica dello scrittore reggiano. In poche righe, D’Arzo riesce a condensare un’intera concezione del dolore, della pietà e dell’emozione, contrapponendo la grandezza scenica del disastro alla microscopica intensità del dolore umano.

«Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente. Ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai di più di una città distrutta dal fuoco»

Questa citazione non è soltanto un’osservazione psicologica: è una dichiarazione poetica e morale. Essa svela un modo di sentire che privilegia il particolare, l’intimo, l’inappariscente. Nella gerarchia dei sentimenti di Silvio D’Arzo, la tragedia collettiva — quella che annienta città e popoli, quella che riempie le cronache — è meno toccante del piccolo dolore quotidiano, del gesto impercettibile, della pena che si consuma in silenzio.

La misura del dolore nella citazione di Silvio D’Arzo

La frase iniziale — «Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità» — è già un’apertura di dubbio, una confessione di ambiguità morale. L’autore non sa se il suo modo di reagire al dolore sia un segno di raffinata sensibilità o, al contrario, di freddezza. Questa incertezza è profondamente umana: chi non si è mai domandato se la propria commozione o indifferenza davanti a certi eventi sia autentica o distorta? Silvio D’Arzo, con la sua consueta delicatezza, non giudica, ma osserva.

Ciò che segue è una distinzione tra due forme di dolore: quello “grande”, collettivo e spettacolare, e quello “sottile”, individuale e invisibile. Le “grandi tragedie” — guerre, catastrofi, città distrutte dal fuoco — appartengono a una dimensione in cui l’orrore è così vasto da diventare quasi astratto. La mente, di fronte a tanto dolore, si difende con l’indifferenza. È un meccanismo antico: la scala del disastro è tale da oltrepassare la nostra capacità di empatia.

I “sottili dolori”, invece, appartengono al regno dell’umano in scala minuta: una parola non detta, un affetto tradito, un gesto di gentilezza respinto, una solitudine non gridata. Sono dolori che non riempiono la scena, ma che colpiscono con più forza proprio perché toccano qualcosa di immediatamente riconoscibile. L’essere umano, suggerisce D’Arzo, non si commuove davanti al fuoco di una città, ma davanti a un volto che trema, a una voce che si spezza.

L’arte dell’infinitamente piccolo

La poetica di Silvio D’Arzo è sempre stata un’arte dell’infinitamente piccolo. Nei suoi racconti — e in particolare in Casa d’altri — non si trovano grandi eventi, ma vite sospese, gesti quotidiani, attese silenziose. È un mondo fatto di crepe, non di esplosioni. Il dolore che lo attraversa è quello della coscienza che si interroga sul senso della vita, sul valore dell’amore, sul destino del tempo.

Nel passo di Due vecchi, Silvio D’Arzo sembra difendere il diritto all’emozione minuta, quella che nasce da una sfumatura. Egli si schiera, per così dire, contro l’enfasi, contro la retorica della tragedia. La distruzione di una città è un evento che appartiene alla storia; ma un gesto di tenerezza fra due anziani, o una parola di distacco, appartengono al mistero dell’animo. E il mistero, per D’Arzo, è più grande della storia.

Il suo sguardo si posa dove la maggior parte degli occhi non vede: nell’interstizio, nel quasi nulla. Da questa prospettiva, la citazione in questione diventa una dichiarazione di poetica esistenziale: D’Arzo non cerca il dramma nella sua manifestazione spettacolare, ma nella sua forma più sottile, dove esso si confonde con la vita stessa.

Empatia e distanza: un paradosso del sentire moderno

C’è anche un tema profondamente moderno in questa riflessione: la distanza emotiva che l’uomo contemporaneo avverte di fronte alle tragedie collettive. Quella “quasi indifferenza” non è solo un tratto personale, ma una condizione universale. Quando le sofferenze diventano statistiche, quando le immagini del dolore si moltiplicano sui giornali o sugli schermi, l’animo umano smette di reagire.

In questo senso, D’Arzo anticipa una sensibilità che sarà tipica del Novecento più avanzato: l’incapacità di sentire il dolore di massa e, al contrario, la commozione per l’infinitamente concreto. Una morte anonima commuove meno di una voce che trema accanto a noi. Non perché la prima valga di meno, ma perché non possiamo comprenderla nella sua vastità.

Così, il narratore di Due vecchi dichiara la sua preferenza per il dolore “sottile”, quello che si insinua nei rapporti umani. Egli è colpito più da una sfumatura d’amore o d’incomprensione che da una catastrofe. Questo non è disprezzo del dolore grande, ma riconoscimento del limite umano: la nostra compassione ha una scala, e quella scala è l’intimità.

Una lezione di pietà discreta

In definitiva, la frase di D’Arzo non parla solo di sensibilità, ma anche di pietà. Una pietà silenziosa, non declamata, che nasce dalla prossimità e dal dettaglio. Egli non crede nella compassione gridata, ma in quella che nasce dal riconoscere nel volto dell’altro la propria fragilità.

La città distrutta dal fuoco è lontana, quasi astratta. Ma il “sottile dolore” che nasce da un rapporto umano infranto, da una carezza mancata, da una parola che pesa — quello è vicino, tangibile, e dunque capace di toccare l’animo fino in fondo.

In questo senso, D’Arzo ci consegna una lezione preziosa: non c’è bisogno di grandi disastri per comprendere la profondità della sofferenza. Basta un gesto, una pausa, un silenzio. Le tragedie più autentiche non bruciano le città, ma le piccole stanze del cuore.

E forse proprio in quella “indifferenza” davanti all’immenso, e in quella commozione davanti al minimo, si rivela la più alta forma di sensibilità: quella che non cerca il clamore, ma la verità umana che si cela dietro ogni sottile dolore.

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