Questa frase, tratta dal romanzo Bassotuba non c’è di Paolo Nori, apre una riflessione profonda e disillusa sulla comunicazione autentica e sui rischi che essa comporta. È un’affermazione che sembra semplice, quasi banale nella sua formulazione quotidiana, ma che nasconde una consapevolezza dolorosa: dire la verità, o meglio, esprimere sinceramente il proprio pensiero, può costare caro. A volte, può costare relazioni, affetti, riconoscimenti. L’onestà, nella vita quotidiana e nei rapporti interpersonali, non è sempre una virtù premiata.
“Avevo già più di trent’anni, ma l’ho capito solo allora che quando dici quello che pensi, dopo magari la gente non ti parla più insieme.”
Paolo Nori e l’essere sinceri
Nella prima parte della frase — “Avevo già più di trent’anni, ma l’ho capito solo allora” — c’è una rivelazione tardiva, una specie di brusco risveglio dal candore dell’infanzia e dell’adolescenza. Fino a quel momento, l’io narrante sembra aver vissuto nella convinzione che la sincerità fosse una qualità intrinsecamente positiva, un ponte tra le persone, un mezzo per avvicinarsi all’altro. Ma l’esperienza della vita adulta lo costringe a una revisione amara di questa convinzione.
Questa presa di coscienza è universale: molti scoprono, in modo spesso traumatico, che esprimere un’opinione non allineata, manifestare un dissenso, rifiutare l’ipocrisia o anche solo dire qualcosa di scomodo può significare rottura, esclusione, silenzio da parte dell’altro. Non è un caso che questa verità venga afferrata dopo i trent’anni: è l’età in cui, nella società contemporanea, si esce dall’ultimo velo di idealismo giovanile e si affronta il compromesso quotidiano del vivere sociale.
Il rischio della sincerità
“Quando dici quello che pensi, dopo magari la gente non ti parla più insieme” è un modo crudo e disincantato per raccontare l’effetto sociale del parlare chiaro. Nori non parla di litigi, di discussioni, di confronti accesi. Parla di una reazione ben più sottile e pervasiva: l’esclusione. La punizione non è il confronto diretto, ma il silenzio, la rottura non dichiarata, l’allontanamento implicito. L’altro non discute: smette semplicemente di parlarti.
Questo tipo di reazione è tipica delle società in cui la coesione sociale si fonda su una fitta rete di non detti, su un galateo della convenzione che privilegia l’apparenza rispetto alla sostanza. In questi contesti, il vero “peccato” non è avere un pensiero critico, ma osare esprimerlo. Paolo Nori, con il suo stile volutamente disadorno e colloquiale, mette in luce una dinamica sociale dolorosa e diffusissima: la paura della verità.
Il peso della parola libera
Il protagonista di Bassotuba non c’è — e forse lo stesso autore, che spesso nelle sue opere confonde narrazione e autobiografia — sembra scoprire con malinconia che la parola libera ha un costo. Ma questa consapevolezza non porta a una rinuncia. Al contrario, in molti testi di Nori, la parola rimane centrale, ostinata, viva. È uno strumento che non può essere abbandonato, anche se porta con sé il rischio della solitudine.
Questa tensione tra verità e solitudine è tipica di molti scrittori e intellettuali che hanno fatto della parola un’arma di libertà: da Pasolini a Elsa Morante, da Leonardo Sciascia a Natalia Ginzburg. Tutti, in modi diversi, hanno pagato il prezzo della loro sincerità con l’isolamento o l’incomprensione. In questo senso, Nori si inserisce in una lunga tradizione di scrittura italiana che riflette criticamente sul linguaggio e sulla sua funzione etica.
Il silenzio come punizione sociale
È interessante notare che nella frase citata da Paolo Nori non si parla di conflitto aperto, ma di silenzio. Il “non parlarti più” è una forma di condanna passiva-aggressiva. La parola diventa una specie di termometro della relazione: finché tutto va bene, ci si parla; quando si rompe il patto non scritto della complicità o dell’ipocrisia, la parola scompare. Il silenzio diventa così un meccanismo di controllo sociale, un modo per ristabilire l’ordine spezzato dalla sincerità.
Una verità scomoda, ma necessaria
C’è, in questa frase di Paolo Nori, anche un invito implicito alla resistenza. Il fatto che la consapevolezza sia arrivata tardi non implica una rinuncia. È come se il narratore dicesse: “l’ho capito, e ora so cosa mi costa essere onesto, ma scelgo comunque di esserlo”. In un mondo dove dire la verità è rischioso, chi lo fa sceglie consapevolmente l’autenticità, pur sapendo che potrà restare solo.
Il romanzo Bassotuba non c’è, come molti testi di Nori, è abitato da personaggi marginali, spaesati, spesso goffi e fuori sincrono con il mondo. Ma in questa loro marginalità c’è una forza particolare: la possibilità di guardare le cose da un’altra prospettiva. E forse anche di dire, con coraggio, quello che si pensa, pur sapendo che “la gente non ti parla più insieme”.
In definitiva, la frase di Paolo Nori è una riflessione amara ma luminosa sul coraggio della parola. È un monito per chi scrive, per chi parla, per chi pensa: dire ciò che si pensa può avere un costo alto, ma è anche l’unica via possibile per essere fedeli a se stessi.